mercoledì 24 gennaio 2024

Un'Ambigua Utopia e il lavoro mentale - Piacenza 1978

 

Foto di Mauro Vallinotto pubblica su Fotografia Italiana feb. 1979


"...partecipammo al convegno della
cooperativa scrittori, “Il lavoro mentale" (27-29 ottobre 1978), contestando con una nostra azione
(insieme a Bifo e agli Skiantos) I'impostazione velleitariamente alternativa, in realtà tutta interna al
mondo della cultura degli organizzatori (Balestrini, Leonetti, Fachinelli): il nostro attacco al Pci fu
espresso dal palco di Piacenza con un intervento di diversi minuti nella lingua di Vega 4, una lingua di suoni gutturali e retrovocalizzazioni che avevamo già sperimentato all'Invasione dei marziani."     (L'articolo di Antonio Caronia Qui)

La registrazione dell'intero convegno adesso si trova su Youtube grazie al lavoro di Andrea Righi 

lunedì 20 novembre 2023

Il Fantasma della Verità - Introduzione

 


Introduzione

Occupare l’immaginario

Come auspicava Antonio Caronia alla fine della sua avventura terrestre


Questo volume è stato curato da Un’Ambigua Utopia (UAU) e da Andrea Bonato, Loretta Borrelli, Alberto “Abo” Di Monte e Giuliano Spagnul.

Ancora una volta la navicella di UAU ospita a bordo degli umani per compiere un viaggio, un viaggio immaginario che vuole creare figure complesse tirando i fili di una matassa di parole e discorsi che hanno riguardato Philip K. Dick in questi ultimi decenni.

La scelta di usare questo vecchio strumento, nato come rivista all’interno del movimento degli anni settanta, ha l’intento di immaginare una possibile, per quanto difficile, pratica utopica: per dirla con Primo Moroni quella di diffondere saperi senza fondare poteri.

L’esperienza e la storia di “Un’Ambigua Utopia”, ma non solo di questa se pensiamo al pensiero e alla vita di tante/i compagne/i che non ci sono più, e che ci mancano, non può essere riportata in vita come negazione ed esorcizzazione della morte. Un’esperienza finita, una vita finita, possono e devono essere usate in continuità, non tanto della loro storia che si è interrotta, ma del movimento alla cui storia hanno contribuito e a cui possono ancora contribuire per il presente e, si spera, per il futuro.

UAU non può che situarsi all’interno del movimento (così come si manifesta nella sua contingenza attuale) continuando a rimanere radicalmente altro da qualunque aggregato di appassionati di un generico mondo del fantastico.

Con tutta la delicatezza e la consapevolezza, quindi, di essere ospiti di uno strumento non nostro e che speriamo di lasciare a disposizione di altre/i arricchito di nuovi saperi, abbiamo intrapreso anche quest’avventura dentro il mondo di Dick.


Mi sembra giunto il momento, a trent’anni dalla morte, di tentare un salto di qualità nella lettura diDick. E riconoscere a questo autore frenetico e polimorfo, irrequieto eppure già “classico”, la qualifica che gli spetta: quella di narratore-filosofo. Antonio Caronia, 2012


Da qui siamo partiti, con questa presa di posizione abbiamo proposto il confronto in un ciclo di incontri finalmente non più virtuali. Al di fuori dalla contesa di chi privilegia la visione critica di Dick verso un mondo sempre più distopico e allucinante da cui pare impossibile immaginare una via d’uscita; o di chi lo vede come critico di una fantascienza ingenua, e quindi teso a innovarla e a traghettarla verso una fase matura e adulta (da genere popolare a letteratura alta); a chi infine lo vuole scrittore autentico, autore mainstream, che nulla o poco deve a quel genere che lo ha ospitato e protetto (permettendogli una libertà che altrove non gli era concessa) ma che lo ha anche relegato dentro gli angusti margini di un mondo di pura evasione, disimpegnato quanto infantile.

Fuori da questi schemi abbiamo cercato un nuovo punto di vista che privilegi l’aspetto più filosofico del suo pensiero. Quello meno considerato perché lontano dal formalismo accademico così connotato di pensiero astratto e avulso dalla vita concreta. Con Philip K. Dick pensiamo di aver trovato un buon compagno di viaggio per cercare la filosofia del vivere la vita, per ciò che è e che è in grado di darci. Insieme a tutti quei piccoli esseri umani, artigiani del vivere e del fallire, ma sempre del ricominciare che popolano le sue narrazioni. E abbiamo scoperto che in tutto questo panorama, privo di qualunque segno di speranza, alberga qualcosa che si può ancora definire gioia. Un umore non programmabile con il “Regolatore d’umore Penfield”, come in Gli androidi sognano pecore elettriche?, ma che risulta ben più reale e per nulla illusorio. Perché la realtà, nel mondo di Dick, non ha un futuro univoco. E questo non può che aprire al gioioso ricercare, insieme ad altri, le possibili alternative di nuovi mo(n)di dell’esistere (come suggerisce Alberto “Abo” Di Monte più avanti). E se vale per il suo mondo, perché mai non dovrebbe valere anche per il nostro? Cosa può voler dire una presa dickiana sul nostro mondo? C’è forse una capacità per comprendere maggiormente la realtà guardandola attraverso occhi così caleidoscopici o, forse, stiamo prendendo un abbaglio e ha ragione Nicoletta Vallorani a dirci che Dick intuisce ma non comprende? La discussione è aperta, ma forse potremmo avanzare l’idea che il termine comprendere può avere due connotazioni molto diverse tra loro: quella di stampo illuminista che pretende con la conoscenza di prendere il mondo, e quello di stampo, potremmo dire harawayano, in cui comprendere vuol dire modificare il nostro modo di concettualizzare la realtà. E chi più di Dick? Caronia ha parlato della capacità di Dick di annusare i suoi tempi. Non è la semplice intuizione che si vorrebbe a un livello inferiore della comprensione. L’annusare parte dal corpo, è qualcosa di profondo, non ha nulla di limitato.

Sono molti gli spunti che vengono fuori da questa matassa di fili di discorsi poco organizzati tra loro ma, evidentemente, piuttosto ricchi e densi. È così che il rimprovero che Edoarda Masi fa a Dick di ricercare una via di fuga piuttosto che una via di uscita ci porta al pensiero negativo di Mark Fisher. Ma è poi così vero? Indubbiamente siamo di fronte all’assenza di una qualsivoglia utopia, in una qualche parte, che si possa prima o poi, o anche molto poi, raggiungere. Ma è pur vero che Dick ha una sua personale utopia, che come dice Caronia, lo accomuna, in qualche modo, con le avanguardie artistiche dei primi del Novecento e che unisce la sua opera con la sua vita.

La ribellione contro la distanza, la separazione tra arte e vita. Ritorniamo quindi a una filosofia per la vita e non viceversa. La svolta mistica o patologica, come la vede Edoarda Masi, ma anche come l’ha vista Ursula K. Le Guin, della sua ultima produzione potrebbe farci ricredere, almeno in parte, sulla sua lucidità e sulla sua capacità di quel comprendere che abbiamo pensato di attribuirgli, forse troppo generosamente. Ma anche a questo proposito Caronia è illuminante e va d’accordo con Pagetti (anche se Pagetti è ben più moderato) nel considerarlo come uno che non ha mai abbandonato una fiducia nella ragione pur con tutti i limiti che lui stesso riconosceva. E questo fino alla fine. Altro che svolta mistica, in lui c’è il coraggio di un materialismo dalle spalle larghe capace di comprendere anche una visione metafisica, visione che, del resto, sta alla base di qualunque premessa scientifica, anche se ovviamente sempre esorcizzata.

Reduci dall’ambigua Utopia del Novecento, giovani e vecchi, studiosi o solo appassionati, ci siamo ritrovati nella comune sfida di pensare che questi quarant’anni fossero da intendersi passati non senza ma piuttosto con lui. Dick ha continuato a dirci quanto il mondo reale, in cui siamo calati, ci sia imposto come una costruzione che esula dalla nostra possibilità di accettare o rifiutare; ma, ci dice anche che per tutti noi rimane comunque ancora qualcosa da fare. C’è sempre uno spazio, un interstizio in cui poter agire e interagire con gli altri nostri simili, e anche dissimili.

Dick è un antidoto (la sua opera è la risposta all’enigma del significato di Ubik) alla rassegnazione verso una realtà che si vuole immutabile, quanto al delirio di onnipotenza di un umanesimo accecato dalla ricerca ossessiva di un’essenza autenticamente umana.


lunedì 8 maggio 2023

Antonio Caronia: Introduzione a I libri del Possibile

 


Quando si parla di fantascienza fuori dalle riviste o dalle pubblicazioni specializzate non si sa mai bene che pesci pigliare. La ragione principale è che non si sa mai a chi si parla: a lettori abituali di fantascienza, a lettori occasionali o a gente che ne ha soltanto sentito parlare? Il destinatario del discorso, in questo caso, è doppiamente importante. Nessun settore della letteratura di consumo, forse, divide tanto la gente. Di solito si passa, senza zone intermedie, dall'esaltazione dell'appassionato alla denigrazione di chi, su altri argomenti, sarebbe soltanto indifferente. Ciò che per gli uni è divertente, splendido, esaltante, profondo, avvincente (le varie categorie di lettori abituali potranno scegliere il loro aggettivo preferito), per gli altri è noioso, puerile, superficiale, inutilmente iperbolico, inverosimile. Inutile dire che, se le critiche aprioristiche sono sempre ingenerose e spesso contraddittorie o fuori bersaglio, le lodi entusiastiche sono a volte eccessive e fuori misura.

Noi dunque, per fare l'elogio di questi libri così apparentemente bizzarri, e rimanendo nel dubbio sui destinatari di questo catalogo, ci manterremo su una posizione mediana, e ci limiteremo ad affermare e ad argomentare che la fantascienza rappresenta la sintesi più completa e rigorosa delle culture e delle civiltà umane in senso tanto storico quanto descrittivo. Non diremo nulla più di questo, anche se spesso ci si aspettano elogi più superlativi, iperboli più smaglianti, e più smaccati abbellimenti della realtà dagli elogi funebri. Sì, perché dimenticavamo che l'altra cosa che diremo della fantascienza è che essa è praticamente morta o, se ancora vivacchia, è proprio moribonda: il che, però, è uno splendido sintomo della sua ottima salute.

Il fatto che una forma di letteratura popolare rechi in sé tracce vistose della civiltà che la prodotta, dei sistemi politici e sociali dominanti, anche dei dibattiti culturali “alti” che si erano svolti o si svolgevano apparentemente mille miglia sopra di essa, non è una novità (basta pensare per esempio a tutta la letteratura sulla fiaba). Anche se c'è voluto molto tempo per capire e interpretare quelle tracce che, proprio per la loro vistosità, come la lettera rubata di Poe, si sono sottratte a lungo allo sguardo degli studiosi. Perché questa caratteristica sia così spiccata nel caso della fantascienza, è invece qualcosa che ha a che fare con le circostanze storiche della sua nascita, con la sua grande abilità nell'intrattenere rapporti con generi letterari, colti e popolari, che l'hanno preceduta, con la pienezza della sua adesione alle condizioni nuove in cui si andava strutturando la vita umana all'inizio di questo secolo e cioè la presa del potere da parte delle scienze pure e applicate.

Quando la fantascienza nasce come genere “commerciale”, e perciò immediatamente riconoscibile, sulle pagine delle riviste popolari nell'America degli anni Venti, ha già alle spalle i “romanzi scientifici” di Wells e i “viaggi straordinari” di Verne, ma anche le immersioni nei mondi esotici e primitivi di Haggard e di E. R. Burroughs, il creatore di Tarzan, le visioni delle “terre dimenticate dal tempo” di Conan Doyle. Fino dai suoi inizi dichiara dunque i suoi debiti verso la tradizione colta e quella popolare, le miscela, le integra e ripercorre poi, a ritroso, tutto il lato notturno della narrativa ottocentesca. Poe e Hoffmann e le storie dell'orrore e il romanzo gotico del primo romanticismo, fino al “racconto filosofico” e al romanzo utopistico, e per suo tramite al racconto di viaggi e alle più antiche storie d'avventure dell'umanità, i miti.

Passa certo attraverso inconcepibili rozzezze, ingenuità ridicole, sentimentalismi da quattro soldi: impiega decenni a recuperare esperienze già compiute e bruciate dalle avanguardie storiche dell'inizio del secolo, banalizza sistemi filosofici e ardite speculazioni sullo spazio e sul tempo. Ma ha sempre, dalla sua, lo straordinario coraggio di chi come diceva Benjamin, “si pronuncia senza riserve a favore dello stato di cose presente, ma non nutre alcuna illusione su di esso”. È una letteratura onnivora, adolescenziale perché tale è l'umanità e la Storia di cui parla. Comprende che la scienza e le sue applicazioni sono lo scenario essenziale della nuova (epoca...) epoca, ma non vuole fare mai – a dispetto delle intenzioni dei suoi primi pionieri – della divulgazione scientifica: assume la scienza, pura e applicata, per quello che essa realmente è, la più potente forza di modificazione dell'immaginario collettivo. E infatti non crea personaggi, nei suoi libri, ma immagini e paesaggi. È fuorviante leggerla come “letteratura di idee” o come “mito del XX secolo”, perché non conserva, della classica letteratura di idee o del mito, l'atteggiamento partecipativo delle culture antiche, o di quella illuministica che quelle letterature hanno prodotto. È vero che sembra assolvere, come aveva già notato Sergio Solmi, alcune funzioni sociali che erano state proprie volta a volta, del mito classico, delle epopee nazionali, del “racconto filosofico”: ma senza nessuna nostalgia delle “grandi narrazioni”, senza nessuna pretesa di fondare alcunché, neppure a livello di ideologia popolare o di divulgazione di idee. Ecco perché le ideologie politiche dei suoi autori hanno potuto attraversarla e lasciarla tale e quale. La fantascienza ha avuto la fortuna di nascere nell'ultima stagione del mito dell'espansione illimitata della produzione e nel paese che sopra tutti lo ha nutrito e incarnato, e di vivere la parabola discendente, la frammentazione, di quel mito e di quella società, da forma letteraria “bassa” e non da dentro le convulsioni della cultura “alta”.

Ecco perché riesce a restituirci le stesse fotografie delle rovine, ma con l'occhio disinvolto, né allegro né triste, di chi non lavora a preparare nessun futuro.

La fantascienza è un gigantesco repertorio dell'immaginario contemporaneo, una massiccia raccolta di studi sulla psicologia dell'uomo che verrà, un'esplorazione sistematica e vorticosa dei paesaggi che qualcuno, dopo di noi, abiterà. Questa è la ragione della sua morte. Di questo gigantesco repertorio, in cui la metafora è morta e le tecniche narrative sono esse stesse i contenuti di ogni possibile “senso del bello”, si nutre tutta la produzione culturale contemporanea, a cominciare dal cinema che ne è l'erede più conseguente. L'invito che vi rivolgiamo è perciò ad un percorso archeologico nei meandri di una forma letteraria e narrativa che si è dilatata fino a fagocitare e a comprendere l'intero universo culturale: non solo il passato, ma anche il futuro. Perché questi libri, in fondo, non sono altro che le vestigia delle narrazioni di domani.

(Antonio Caronia: Introduzione a “I libri del Possibile” Proposta bibliografica per una mostra mercato itinerante. Provincia di Milano, settembre 1982.)


domenica 30 aprile 2023

Antonio Caronia: L'astuta follia di Don Chisciotte

 


La realtà si presenta oggi, alla nostra sensibilità ipermoderna, come un'entità frammentaria, conoscibile localmente ma inafferrabile globalmente, oggetto di costante negoziazione intersoggettiva. Ma per avviare il processo che ha portato la realtà a diventare ciò che è oggi, la modernità ha dovuto, fin dai suoi inizi, operare alcune cesure e alcuni ribaltamenti di prospettiva radicali. Fra quelle cesure e quei ribaltamenti possiamo annoverare il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, pubblicato in Spagna all'inizio del XVII secolo. Possiamo farlo selezionando, fra le letture che ne sono state fatte nei secoli seguenti, quelle che mettono in primo piano appunto il problema della costituzione della realtà come accordo intersoggettivo, e che quindi affrontano il tema della follia di Don Chisciotte non tanto e non solo come problema di “patologia”, quanto come problema (per usare una terminologia foucaultiana) di costituzione di un “discorso”.

Nella storia di questo hildago 'middle class' - se così si può dire - affascinato dalle imprese dei cavalieri erranti, che scambia i mulini a vento per giganti, una bacinella da barbiere per l'elmo di Mambrino, e un'ordinaria contadinotta per la grande dama Dulcinea del Toboso, suo grande amore e musa ispiratrice, più di una volta si è voluto vedere un'apologia della libertà del soggetto di fronte ai vincoli della prosaica 'realtà', le cui ragioni nel romanzo, sarebbero rappresentate - oltre che dal curato, dal barbiere e da Sansone Carrasco, borghesi ante litteram e desiderosi di ricondurre il cavaliere alla ragione - dall'alter ego Sancho Panza, contadino materialista e suo fedele scudiero. Don Chisciotte sarebbe, secondo la lettura romantica, un 'eroe dell'ideale'. Una lettura del genere non resse a lungo, almeno per il ruolo di Sancho i più attenti lettori si avvidero già nell'Ottocento dell'osmosi che si crea tra il mondo della follia di Don Chisciotte e quello dello scudiero. Ma non regge neppure l'identificazione tra follia e libertà. La follia di Don Chisciotte è una follia molto particolare. Per tutto il romanzo, sia coloro che lo conoscono bene, sia quelli che lo incontrano di volta in volta nelle sue avventure, concordano sul fatto che, a parte la fissazione per la cavalleria e le conseguenze pratiche ch'egli ne trae, la mente di don Chisciotte funziona benissimo. Non sempre nella sua mente scatta il dispositivo che lo porta a vedere nel mondo contadino della Spagna dei suoi tempi il mondo favoloso della cavalleria e quando ciò non avviene egli legge la 'realtà' esattamente come gli altri. Una parte non piccola del fascino del libro sta senza dubbio nel fatto che, benché noi sappiamo bene che i mulini a vento non sono giganti, le pecore non sono eserciti, e Aldonza Lorenzo non è Dulcinea, la figura di Don Chisciotte non ne risulta sminuita: noi non lo vediamo mai come un povero mentecatto, anche se sappiamo che la sua visione del mondo è in conflitto con la nostra, è inequivocabilmente 'sbagliata' nei termini della vita quotidiana, e il suo 'ideale' è per noi ben poco affascinante. È la tenacia delle sue convinzioni e la fermezza del suo codice morale, che ci conquistano, come conquistano, nell'universo narrativo, Sancho, che è sì il rappresentante del senso comune ma che più di una volta vacilla, nella seconda parte del libro, e cede lala visione della realtà che ha il suo padrone, o quando gli sembrino convenienti i vantaggi materiali che egli ne potrebbe ricavare (il promesso governatorato dell'isola), o quando gli manchino i dati sensoriali su cui basare una lettura della realtà ordinaria. Così, quando nell'episodio di Clavilegno (Parte II, cap. XLI) i due vengono messi su un cavallo di legno bendati e con vari trucchi vengono convinti ad attraversare a volo le regioni celesti, Sancho addirittura emula - come può - il suo padrone, costruendo un resoconto del loro supposto viaggio nel cosmo ancora più fantastico di quello che potrebbe darne Don Chisciotte.

Come leggere allora, produttivamente, la follia di Don Chisciotte? Una prima indicazione ce la può dare Michel Foucault che, nella sua “Storia della follia” (1963), ha analizzato come un fenomeno che nel sedicesimo secolo era ancora un intreccio di immaginario e socialità (la follia, appunto), si trasformi, nel processo di affermazione della modernità, in un elemento del discorso strategico sui saperi e divenga quindi una 'patologia'. Scrive Foucault: “il fatto è che ora [tra la fine del XVI secolo e l'inizio del XVII] la verità della follia è una sola e stessa cosa con la vittoria della ragione e il suo definitivo dominio: perché la verità della follia è di essere all'interno della regione, di esserne un aspetto, una forza e come un bisogno momentaneo per diventare più sicura di se stessa.” Ed ecco che possiamo quindi individuare un nesso tra follia e morte. Osserva infatti Foucault che in Cervantes o in Shakespeare la follia occupa sempre una posizione estrema, nel senso che essa è senza rimedio. La follia, nei suoi vani ragionamenti, non è vanità; il vuoto che la riempie è 'un male molto al di là della mia scienza', come dice il medico a proposito di Lady Macbeth; è già la pienezza della morte: una follia che non ha bisogno di medico, ma della misericordia divina.

Indubbiamente la morte di Don Chisciotte avviene in un paesaggio placato, che si è ricollegato all'ultimo istante con la ragione e con la verità. Tutt'a un tratto la follia del Cavaliere ha preso coscienza di se stessa, e davanti ai propri occhi si tramuta in stupidità. Ma questa brusca saggezza della propria follia è qualcosa di diverso da 'una nuova follia che gli è appena entrata nella testa'? Ecco un equivoco eternamente reversibile, che non può essere risolto, in ultima analisi, se non dalla morte stessa. La follia dissolta non può che confondersi con l'imminenza della fine; 'e uno dei sintomi dai quali congetturarono che il malato stava per morire fu il fatto di essere tornato così in fretta dalla follia alla ragione'. Ma la morte stessa non arreca la pace: la follia trionferà ancora: verità derisoriamente eterna, al di là del termine di una vita che tuttavia si era liberata della follia con questo stesso termine. Ironicamente la sua vita insensata lo insegue e lo immortalizza solo con la sua demenza; la follia è ancora la vita imperitura della morte: 'Qui giace l'hildago temibile, che spinse così lontano il valore che la morte non poté trionfare della vita nel suo trapasso.' Non c'è qui il tempo di sviluppare queste preziose indicazioni di Foucault, anche perché, come punto di vista complementare vorrei proporre in conclusione quello del sociologo tedesco Alfred Schutz, che nel saggio del 1955 “Don Chisciotte il problema della realtà” analizza acutamente le strategie cognitive del personaggio, sostenendo una visione della conoscenza che assegna un ruolo attivo, creativo, al soggetto conoscente, e non un ruolo passivo (come fanno le teorie che vedono nella conoscenza un semplice 'rispecchiamento' della realtà). Partendo dalle teorie dello psicologo americano William James, Schutz sostiene infatti che la realtà non è una a priori, ma il risultato di un accordo intersoggettivo, perché ognuno di noi è in grado di vivere in 'sotto-universi' differenti, sui quali di volta in volta viene posto un 'accento di realtà'. Don Chisciotte non è affatto incapace di comprendere il sotto-universo del senso comune, quello in cui vivono gli altri personaggi. Non sempre la marionette diventano persone in carne ed ossa, non tutte le bacinelle sono elmi, non tutte le locande per lui sono castelli né gli osti castellani. Perché? Perché, come scrive Schutz, né il sotto-universo della follia di Don Chisciotte né l'ovvia realtà dei sensi in cui noi come Sancho Panza viviamo la nostra esistenza di tutti i giorni sono in verità così monolitici come appaiono. Entrambi contengono delle enclavi di esperienze che trascendono sia il sotto-universo dato per scontato da Don Chisciotte sia quello di Sancho, e implicano riferimenti ad altre sfere di realtà che non sono compatibili con essi. Ci sono rumori notturni enigmatici e inquietanti, ci sono la morte e il sogno, la visione e l'arte, la profezia e la scienza. Se il sotto-universo della cavalleria è quello su cui Don Chisciotte pone l'accento di realtà è per una ragione etica, perché, come dice egli stesso, 'io nacqui, per volere del cielo, in questa nostra età di ferro per farvi risorgere quella d'oro o aurea, come suol chiamarsi.' Tutto il Don Chisciotte appare allora come la contesa (che può essere scontro, ma anche incontro o mediazione) fra sotto-universi differenti: potremmo anche dire, forse, fra diversi 'sistemi di valori'. E si capisce anche l'evoluzione dei personaggi, da quella di Sancho che la vita in comune con Don Chisciotte porta a un certo punto ad accettare (come può) alcuni aspetti del mondo del suo padrone, a quella di Don Chisciotte che, dopo l'episodio del cavallo di legno (citiamo sempre Schutz), 'sente di aver infranto i confini della realtà della provincia privata che lui stesso ha stabilito, e di essere stato debole nel por limite ai sogni, confondendo così due sfere della realtà e rendendosi colpevole nei confronti dello spirito della verità, la cui difesa è il primo dovere del cavaliere errante.'

Ecco quindi che la follia di Don Chisciotte appare più come un episodio rilevante della costituzione di un nuovo senso della realtà, quello dell'epoca moderna, che il bizzarro esperimento di uno scrittore.

(Pubblicato su Cyberzone n. 13 - 2001)


lunedì 27 dicembre 2021

Una strana idea.

 


Strana idea quella di volersi ostinare a “Continuare a distruggere la fantascienza” (1) quando la suddetta è già bella che morta da almeno mezzo secolo. E ancora più strano ostinarsi a ribadire questo impulso (forse un po’ necrofilo?) su una neonata rivista, necrofila a sua volta nel voler possedere la compianta defunta Un’Ambigua Utopia, deceduta da quasi un quarantennio.  Confrontarsi con le nuove generazioni, anche scontrarsi, è sempre entusiasmante. Le tue convinzioni, per quanto possano contare su un passato più lungo di esperienze, non possono altresì contare su un altrettanto lungo futuro. E il futuro, con le sue memorie e il suo intenso vissuto, è il terreno in cui i giovani possono muoversi con un tipo di agio che a noi vecchi, ormai, non è più concesso.

Forse per questa mancanza di un qualunque stimolo d’entusiasmo è stato difficile, per non dire impossibile, confrontarmi con un gruppo la cui età media coincide con la mia, o forse (o anche) perché nella morsa degli impulsi nostalgici il rischio della caduta negli stati confusionali caratteristici della nostra età senile sono troppo alti. Lo dimostra l’editoriale di questa UAU 11 (consultabile anche sul sito col titolo “La nostra storia”) in cui i redattori scoprono di essere rimasti, rispetto alla redazione di allora, solo in otto: “due colonne, Antonio e Giancarlo ci hanno lasciati, Giuliano ha scelto di non partecipare, Piero è molto anziano e poco attivo e tutti noi che qui trovate elencati siamo vecchietti e in pensione. Ma non abbiamo mollato ancora.” Anch’io non ho mollato, anche perché dovrei sapere prima cosa ho da mollare… Una militanza? Quella che abbiamo conosciuto in gioventù è finita da un pezzo, e almeno questa è stata una fortuna! Un’appartenenza? Destra e sinistra, due appartenenze che sempre più rischiano di essere puramente nominali. Un’identità? Questa forse sì è il problema che qui mi sembra più rilevante. Dimenticarsi, come è stato fatto in questa storia di un “noi”, di compagne e compagni che hanno fatto altrettanto parte di quella vecchia esperienza non credo possa addebitarsi al problema senile quanto piuttosto al bisogno di volersi sentire maggioranza e pertanto legittimati nel costituirsi come identità, come un ‘noi’ forte che possa reclamare diritti di proprietà. Chiedo scusa a nome loro a Luci Pittan (che non è più tra noi), Michela Panigada, Enrico Miotto, Maurizio Giannoni, Renato Aquilani, a Flavia De Giovanni e insieme a lei a tutte/i quelle/i che sono entrati attivamente negli ultimi tre anni della vita del collettivo (di cui rammento poco volti e nomi essendone io uscito proprio allora). Ricordo con commozione però quando al funerale di Antonio Caronia ha parlato una compagna che ha esordito dicendo “noi di Un’Ambigua Utopia” ed io con Giancarlo Bulgarelli e Patrizia Brambilla ci siamo guardati in faccia stupiti perché non ce la ricordavamo.

Perché in realtà UAU è stata veramente un “noi” ma ben di più ampio respiro di quanto si vorrebbe far credere in quella nuova storia fatta ad hoc. Perché è vero che tutte le storie sono di parte e parziali, ma quelle che si costituiscono in un dibattito nel corso degli anni hanno un valore di memoria che, per quanto inventata (e quale non la è?) si costruiscono come storie operanti nel presente. L’invenzione di una storia ad hoc per legittimare un’operazione improvvisa ha un valore completamente diverso in quanto ha la sola finalità di giustificare tale operazione. Ma non c’è nessuna legittimazione possibile ad un’operazione di accaparramento di una storia che non è solo quella degli anni ’70, ma è soprattutto quella che da più di vent’anni hanno portato avanti Caronia, il sottoscritto e tutte/i quelle/i compagne/i del movimento, attiviste/i dei centri sociali o meno, come ad esempio quelle che hanno messo in piedi l’Archivio di UAU (Bibliotork Interzona Caronia) del C.S. Torchiera, o quelli che hanno digitalizzato e resa pubblica l’intera serie della rivista e prodotto il n. 10 di UAU. Numero unico quest’ultimo perché privo, da parte di chi l’ha fatto, di istanze proprietaristiche, e quindi a disposizione, in quanto attrezzo libero, di chi abbia voglia ed esigenza di usarlo nel rispetto della sua specifica storia interna al movimento antagonista.

E forse questa è stata una pretesa eccessiva. Questo decimo numero a cui ho collaborato ma che non nasce da una mia proposta ma dal gruppo di digitalizzazione (anni fa avevo proposto al C.S. Il Cantiere un n. 10 fatto con un finto materiale recuperato nel classico baule della soffitta dell’immaginario, un fake da realizzare per il primo anniversario della morte di Caronia, che purtroppo non si è potuto realizzare)  è stato costruito come continuazione di un ciclo di incontri sulla fine dell’uomo al C.S. Piano Terra. Ma è evidente che nonostante la cautela e le premesse prudenziali di non voler far rinascere alcunché, del non voler cadere nelle maglie del nostalgico ritorno al passato, i rischi di inneschi di questo tipo c’erano tutti. Avrei molto volentieri evitato questo intervento ma non credo ci sia altro modo per contrastare quella confusione generata da un’iniziativa che si vorrebbe in continuità con tutto quello che è stata finora la storia di UAU e al contempo ne prende le distanze con la rivendicazione di una diversa via autonoma all’interno del vecchio collettivo.

È vero che quando si costituì il collettivo ci furono due linee contrastanti, una che voleva svolgere all’interno del mondo fantascientifico, sia nell’ambito ristretto del fandom che in quello più generale dei lettori anche occasionali del genere, sulla scia della pretesa egemonia culturale della sinistra che anche in questi ambiti particolari poteva e doveva rendersi tale (portata avanti soprattutto da Bulgarelli) e quella del sottoscritto che con l’editoriale del n. 1 annunciava la “distruzione della fantascienza”. Una line di politica culturale classicamente di sinistra contro una più settantasettina, tanto ingenuamente quanto genuinamente ribelle. Entrambe convergono però in quell’idea di far entrare la politica nella fantascienza coll’idea che si potesse separarne la parte buona (di sinistra) da quella cattiva (di destra). L’elenco degli scrittori pro e contro la guerra in Vietnam certificava proprio questo intento. In un qualche modo era difficile per tutti noi liberarci dai condizionamenti di un genere che aveva condotto le generazioni pre e post Seconda Guerra Mondiale attraverso il più rivoluzionario cambiamento epocale, quello tecnoscientifico, che l’umanità abbia mai fatto. Quell'inizio di distanziazione dal genere e di una larvale presa di coscienza di avere a che fare con qualcosa che oggi sappiamo essere stato un efficace dispositivo di assoggettamento è avvenuto solo con l’apporto di Caronia. Nessuna delle due linee preesistenti viene sconfitta, perdono semplicemente di significato perché prive di validi argomenti. Al di là dello slogan settantasettino non c’era poi molto d’altro e sulla vantata egemonia della sinistra e sulla sua liceità, lasciamo perdere!

Con molta franchezza va detto che il collettivo che trovava Caronia al suo ingresso non poteva vantare né un’esperienza di pratica politica né di preparazione culturale pari alla sua, sempre che si voglia essere sinceri! Il livello degli articoli, al di là delle buone intenzioni, più che lodevoli, certo, non poteva dirsi particolarmente elevato. Del resto era un po’ per tutti un’utile palestra. Ma, ancora di più, le idee erano abbastanza confuse e il livello di conflittualità non poteva, oltre agli scazzi, dare alcun contributo arricchente. Prova ne era, oltre a quell’ingenua suddivisione tra fantascienza di destra e di sinistra, soprattutto l’incapacità di uscire da quello schema asfittico di demarcazione del territorio tra ciò che è o non è fantascienza. Come dimostra l’incapacità di collocare nel n. 2 dedicato ai bambini nella SF l’articolo “Perché non voglio avere un bambino” altrimenti che non in fondo, fuori dal monografico. Occasione sprecata per situare un discorso astratto, che si distingueva da tanti altri solo per un linguaggio di sinistra stereotipato, in una situazione di vita concreta, vissuta.

Se analizzassimo la rivista nella sua evoluzione, così come nelle numerose attività parallele al collettivo, si potrebbe dimostrare facilmente che la “svolta” di Antonio non è stata un’altra strada ma l’unica strada per un’esperienza che volesse stare dentro quel Movimento che stava tentando l’ultima, drammatica e gioiosa al tempo stesso, scalata al cielo. Ipotizzare due identità autonome all’interno di UAU, una che fa un percorso dalla “politica alla fantascienza” e l’altra “dalla fantascienza alla politica”, (anche volendo dare per scontato  che questi due percorsi così descritti abbiano un senso logico) e che “per alcuni anni furono superbamente intricate” vuol dire sclerotizzare una storia che ha avuto una pluralità di identità per quante sono state le decine e decine di persone che l’hanno attraversata e fatta vivere. Le due anime conflittuali dell’inizio, abbastanza confuse da non potersi delineare come precise identità autonome con l’arrivo di Antonio perdono la loro superficiale e sterile dicotomia sciogliendosi in una pluralità di identità e posizioni variegate. In “Distruggere l’utopia”, nel libro collettivo in memoria di Antonio Caronia, Mondi altri, Mimesis 2016) ho descritto quello che penso sia stato il significato del lavoro di Antonio all’interno di UAU e credo che questo possa delineare  il senso di tutta quella vecchia esperienza e e la sua possibile risignificazione oggi: “L’incontro di Antonio Caronia con un gruppo, con un ‘noi’ che non rinnega una precisa affiliazione politica ma che rifiuta una qualsivoglia progettualità a cui dover aderire collettivamente gli permette di portar avanti una propria ricerca personale, un proprio progetto di lavoro capace di avvalersi degli stimoli e dei confronti con quello degli altri senza dover imporre necessariamente il proprio. Trent’anni dopo la fine di questa esperienza, in una video-intervista parlando del suo punto di vista sull’arte nel movimento, prospetta una modalità del lavorare insieme in cui il criterio generale ‘sarebbe quello di un posto, di un collettivo, di un luogo in cui l’attenzione sia contemporaneamente o in tempi molto vicini, in modi molto vicini, al modo in cui sorgono le idee, al modo in cui sorgono i progetti, al modo in cui si pensa l’innovazione espressiva e contemporaneamente la si pratica, la si mette in opera” insomma, quasi un’ambigua utopia riadattata per il nuovo millennio.’ L’apporto di Antonio ha reso più concreta quel tipo di “utopia” che Primo Moroni ha esplicitato come la capacità di “diffondere saperi senza fondare poteri”. Alcuni di quei “noi” ne avranno saputo trarre vantaggio, altri evidentemente no.

(1): Il contributo in oggetto QUI mio e di Alberto Di Monte è stato dato al n. 11 della neonata rivista prima di aver potuto leggere l'editoriale. 

domenica 21 novembre 2021

Continuare a distruggere la fantascienza


 

Continuare a distruggere la fantascienza

Nel 1977, l’anno che ha visto bruciare tutti i desideri possibili di una generazione che sognava di dare l’assalto al cielo, l’editoriale del primo numero di Un’ambigua utopia titolava “Distruggere la fantascienza”. Questo dialogo, pontiere tra due generazioni a confronto, riprende la matassa di quell’ipotesi di lavoro su un genere stressato da tentazioni estetizzanti e schiacciamento sul tempo presente

Giuliano Spagnul - Nel 1965, a pochi anni dallo sbarco sulla Luna, la televisione italiana (che all’epoca aveva due soli canali le cui trasmissioni finivano, come i mascheramenti di Cenerentola, allo scoccare della mezzanotte) ha mandato in onda un ciclo di sei film1 di fantascienza. Fu un evento epocale in cui la cultura di massa doveva misurarsi, in prima serata, con opere di una certa levatura della settima arte: Eisenstein, Dreyer, Ford, Lang, per fare solo qualche nome. L’ansia per un possibile incipiente ultimatum alla terra e la speranza nelle “magnifiche sorti e progressive” che il connubio scienza e tecnica sembrava offrire, si coniugavano in un immaginario fantascientifico ad uso popolare che conteneva in sé sia la critica che l’adeguamento alla velocità del progresso tecnoscientifico, che andava modificando irreversibilmente gli automatismi soggiacenti ai normali comportamenti quotidiani. Voi giovani siete il prodotto di questa fucina di trasformazione che noi abbiamo deciso, quanto subito. Pensi che la tua, come le altre ancor più giovani generazioni, siate in grado di immaginare (e quindi di non esserne stati del tutto privati) quel senso di speranza verso un futuro come promessa, per quanto talvolta inquietante e minacciosa che muoveva la nostra, come le precedenti generazioni?

Alberto Di Monte - Sono cresciuto in tempo di monopolio capitale. Un tempo orfano di socialismi desiderabili, in cui i concetti di blocco e di muro evocano immagini inedite rispetto a quanto risuona nella testa dei miei familiari. Ho conosciuto l’ondata montante della crisi climatica: ieri terreno di conflitto accademico, oggi matrice di sopravvivenza, processi migratori e accaparramento di risorse. Oltre le facili retoriche thunberghiane sul fallimento della generazione che mi ha preceduto, l’ineluttabilità di un futuro come minaccia, o quantomeno incognita, è chiaro a quante e quanti mi circondano. I tentativi di sottrazione a questo senso di incombenza, anche in campo letterario, svelano il loro carattere ideologico ed estetizzante, suggerendo affreschi rigenerativi e resilienti (ma scevri dal conflitto) ad un pubblico che nutre presentimenti survivalisti.

G.S. - Se la fantascienza ha corroso dall’interno il mito del progresso, come diceva Antonio Caronia “nutrendoci dell’immaginario della catastrofe e del dramma insito nella potenza della tecnologia”, in che modo, con quali discussioni pensi che oggi la tua generazione avverta i tentativi di una riproposizione della fantascienza in termini progressivi e ottimistici? Mi riferisco tanto ai manifesti dell’ottimismo tecnologico del solarpunk (in contrapposizione al nichilismo catastrofico cyberpunk) quanto a posizioni che sottendono tesi accelerazionistiche, piuttosto che a nuove prospettive di espansione spaziale, nelle nuove frontiere cosmiche che i soldi dei miliardari Musk o Bezos vorrebbero rendere possibili.

A.D.M. - Ci sono più filiazioni narrative del punk che punk umani in circolazione: dieselpunk e atompunk nella versione analogica del già citato cyber, steampunk dal sapore vittoriano e dai pomi d’ottone, in tempi più recenti appunto il più rassicurante e olistico solarpunk. La mia impressione è che questa fantascienza soffra della stessa patologia di quella sulle cui ceneri è sorta, dedicandosi ad un esercizio d’ambientazione che, non senza una certa abilità descrittiva, rinuncia alla comprensione del metaverso in cui la sfera del reale e quella digitalmente aumentata, precipitano inesorabilmente. Dal punto di vista del suo consumo, questo approccio compilativo può indicare la direzione di vene aurifere ancora inesplorate nell’ambito del gaming e della serialità televisiva. Ma tutto questo potrebbe non bastarci.

Tornando ai voli suborbitali in streaming-visione promossi dal trio dei patrimoni da capogiro: dietro la patina di fastidio provocata da questo inedito svago per ultra ricchi, non si cela il "solo" accreditamento per servizi spaziali da vendere alle agenzie internazionali e tantomeno l'ospitalità per studi scientifici della durata di dieci minuti di assenza di gravità. Dopo anni sottotono lo spazio "ultima frontiera" guarda nuovamente a Marte (per non dire delle suggestioni sulle origini dell'asteroide ‘Oumuamua!) provando a spostare l'orizzonte della crisi climatica del sistema-mondo. Si può guardare a questa opzione come una nuova forma di negazionismo della finitezza dell'equilibrio chimico e biologico del geoide?

G.S. - Direi assolutamente di sì. È l'anelito dell'infinito, sempre presente nell'uomo, che si ritorce contro se stesso spostando questo andare oltre, che ha più dimensioni e sensi possibili, in una direzione puramente spaziale: alla ricerca di una nuova frontiera, nuovi spazi da sfruttare dopo l'esaurirsi delle risorse del pianeta che ci ha ospitato finora. Quindi più che di negazionismo parlerei di una promessa di futuro espansivo e illimitato che deve abbandonare dietro di se gli inevitabili scarti del proprio procedere.

Ma per rimanere a terra, da terrestri quali siamo e rimarremo, io credo, per un bel pezzo ancora, tu hai scritto un racconto “Alba di ruggine”2 che nella sua trama ucronica potrebbe ascriversi, di fatto, alla fantascienza. Hai anche pubblicato un saggio nella forma di guida sui sentieri che attraversano i nostri confini, in cui i migranti vengono intrappolati entro una tela che una politica inefficace quanto crudele ha intessuto di micidiali fantasie tecnoscientifiche.3 Su quali basi potresti distinguere il carattere fantascientifico da quello realistico di queste tue opere?

A.D.M. - Diffido delle copertine. Intendiamoci l’oggetto libro, con le sue rilegature e sovracoperte piuttosto che nelle più economiche edizioni brossurate, continua a nutrire la nostra fantasia con una cura che tracima l’immaginario suggerito dall’immagine del suo involucro. Eppure il genere rappresenta, in parte, un recinto utile anzitutto a chi cataloga e a chi vende, piuttosto che a chi legge e scrive. Elementi di fantascienza convivono nell’ucronia rugginosa cui facevi riferimento e certamente permeano la compilazione degli elementi, questi sì presenti e assolutamente reali, dei dispositivi di cattura delle persone migranti. La condizione nomade, all’ombra della ferocia del suo carattere di migrazione forzata, è una metafora (da maneggiare con una certa delicatezza) assolutamente contemporanea anche per quanti hanno cittadinanza e documenti per l’espatrio, ma abitano lo stesso fragile presente che porta in nuce la minaccia di apolidia per via di mutamenti repentini, spaesamento o disaffezione.

G.S. - Scriveva Primo Moroni in un articolo dal titolo dickiano “La svastica sul sole” che il capitalismo è una grande invenzione, una “forza rivoluzionaria per eccellenza, si trasforma continuamente. Disintegra luoghi comuni, culture piccole e grandi, utopie negative e positive, speranze e illusioni.” Il nostro slogan distruttivo con cui abbiamo inaugurato UAU e che tu e il tuo gruppo di giovani compagni che avete digitalizzato l’intera serie della rivista avete ripreso con enfasi durante l’iniziativa a Mudima nel 20184, di fatto voleva, nel suo piccolo, riappropriarsi di questa forza rivoluzionaria del cambiare, dell’essere pronti, in quanto rivoluzionari, per dirla ancora con Primo , di essere “persona che cambia, si trasforma in continuazione.” Pensi che la fantascienza possa oggi riproporsi in continuità con ciò che è stata quando è nata un secolo fa o debba ripensarsi come ciò che rivive, dopo la propria morte, in modo affatto diverso?

A.D.M. - Risposte non ne ho, non sono nemmeno un lettore "forte" di fantascienza, o almeno di quella cintata dai quadri archetipici del genere. Non vorrei d’altronde ridurre la discussione alla facile critica delle suggestioni spoliticizzate e young adult della distopia formato Netflix di cui l’universo mondo si nutre. Il rischio di incappare in un nuovo e identico recinto ideologico, quello di una fantascienza utile a interpretare o preconizzare l’alba di domani, sarebbe troppo alto. Eppure la curiosità non manca: chi mi accompagna a visualizzare tecnologie conviviali, cooperazione sociale, scontri tra interessi incompatibili e irriducibili al crepuscolo di una modernità esaurita, produttrice bulimica di disagio psichico e ansie esistenziali? Chiedo io a te, sei sicuro di non voler veder risorgere la fenice? Sei certo di non desiderarlo oggi più profondamente?

G.S. - Touché. Ma in realtà la distruzione che intendevamo con quello slogan riguardava più il contenitore che il contenuto. Certo che c'è bisogno di qualcosa che accompagni e ci aiuti a vedere quel che oggi è sotto gli occhi di tutti ma che tutti, proprio per questa esposizione in piena luce, si fatica a vedere. La fantascienza è diventata la realtà soggiacente al nostro agire quotidiano sia nella prassi cosciente individuale e collettiva che negli automatismi e abitudini soggetti a continue sollecitazioni innovative. Tutto sta ad aver capito che la morte è sempre la condizione necessaria alla vita stessa. Al suo essere creazione del nuovo e non stagnazione del vecchio. Quindi non pensi anche tu che la fantascienza oggi più che rinascere dalle proprie ceneri debba trovare l'occasione di una propria risignificazione non nostalgica ma capace di ridisegnare nuovi giochi nel campo del possibile?

A.D.M. - E' un buon punto di partenza, per quanto una cornice promettente non produca necessariamente una buona letteratura. Anche da questo punto di vista il continuo riferimento all'esperienza dickiana tradisce una certa “ostalgie” in cui la fantascienza politica, o radicale, resta forse intrappolata come nel cubo di Vincenzo Natali.

G.S. - Antonio Caronia parlava di una fantascienza radicale piuttosto che di una fantascienza “matura” (che in quanto tale prelude alla sua imminente decomposizione) per rivendicarne la capacità di far dubitare la realtà di sé stessa. Pensi che le nuove generazioni oggi preferiscano immaginari più rassicuranti, o anche distopici ma certi, rispetto a una messa in mora dell'esistente così, appunto, radicale?

A.D.M. - Abbiamo percorso riga dopo riga un'infinità di universi presenti, futuri, passati e alternativi...alla ricerca. Non alla ricerca di, semplicemente in nome della narrazione e della sua potenza di rottura del piano di realtà. Questa tensione alla fuga convive necessariamente con una seconda tensione alla quiete che non è più o meno preferibile ma resta un punto d'ancoraggio ineludibile, un ritorno ad uno stato di equilibrio, una camera di compensazione che tutela il rientro all'atmosfera terrestre.

G.S. - Se oggi, come io credo, la parola fantascienza non caratterizza più l'appartenenza a un genere ma è un puro ingrediente che può essere dominante oppure un solo colore insieme ad altri di un prodotto ibrido, ciò significa che non esiste più la possibilità di normare il genere e, quindi, di farlo sussistere in quanto tale. Non si può più scrivere oggi l'equivalente delle Tre leggi della robotica di Asimov pretendendo che sia una norma da rispettare o da trasgredire, comunque implicitamente a cui riferirsi. Questo fa della fantascienza più una modalità di lettura che non un prodotto determinato dai suoi elementi. Concordi con me? E se sì non pensi che una lettura fantascientifica del reale voglia dire saperlo mettere in crisi andando a fare domande laddove le risposte vorrebbero imporsi come legittime per essere state poste “in nome” della scienza?

A.D.M. - Posso dire un’eresia? Alle tre leggi di Isaac rispondevano sì tutti i cervelli positronici, ma la rilevanza che diamo alla sua geniale intuizione tradisce un consapevole e imperituro appiattimento sui suoi grandi maestri. Questo è stato forse lecito per la capacità di penetrazione nell’immaginario collettivo e nella stessa letteratura SF. Fuori dalla zona comfort della golden age, prima e dopo la stagione ruggente della narrativa hard, il multiverso fantascientifico è popolato da ginoidi, precog, xenomorfi, cyobrg, ai, mecha e automi che realizzano altre vie di fuga, non necessariamente pulp, dall’umanesimo e dalle sue leggi. La fantascienza come modalità di lettura è certamente un buon grimaldello per attraversare comunità, scienze e mondi lontanissimi.

1 Dal 23 agosto al 27 settembre con cadenza settimanale: Robert Wise, Ultimatum alla Terra; Eugene Lourié, Il risveglio del dinosauro; Val Guest, I vampiri dello spazio; Inoshiro Honda, I Misteriani; Howard Hawks, La cosa da un altro mondo; Paolo Heusch, La morte viene dallo spazio.

2 Un’ambigua utopia n. 10, reperibile su http://archivio-uau.online

3 Sentieri migranti - tracce che calpestano il confine, Ugo Mursia editore, 2021. Recensione in Bottega: https://www.labottegadelbarbieri.org/alberto-di-monte-sentieri-migranti-tracce-che/

4 https://moroniecaronia.noblogs.org/

(pubblicato nella Bottega del Barbieri QUI )

sabato 20 novembre 2021

Cosmoanticapitalismo

 


Cobol Pongide nel suo recentissimo libro Cosmoanticapitalismo (ed. Novalogos, ottobre 2021, 130 pag., 12 Euro) cita l’editoriale del primo numero di Un’Ambigua Utopia in cui si afferma che “qualunque proposta di un mondo, di una vita alternativa, è fantascientifica” (1) e a riprova di ciò aggiunge: “altrove, ho sostenuto che Il manifesto del partito comunista è (anche) un libro di fantascienza.”

In questo libretto pungente di “critica e conflitto nel tempo della conquista dello spazio”, come recita il sottotitolo, l’autore scienziato, musicista e ufociclista fa un uso della letteratura fantascientifica “in termini di artefatti cognitivi esemplificativi, per ciò che concerne le varie forme di pensiero anticapitalista  analizzate.” Usare la fantascienza e non esserne soggiogati è un buon punto di partenza per riuscire a vedere quello che, essendo sotto gli occhi di tutti, rischia di passare inosservato, e cioè che le magnifiche sorti e progressive legate alle altalenanti riuscite dell’impresa spaziale si sono rivelate per quello che sono sempre state: impresa, appunto. Una corsa imprenditoriale che guarda allo spazio e al futuro prossimo, ma che ha come obbiettivo immediato nel “qui ed ora sul nostro pianeta” la creazione “di un modello di vita e di lavoro transumanista e multiplanetario.”

Difficile non leggere in tutta la miscellanea di esperienze stralunate (ma di certo non più strampalate di tutte le altre esperienze che accettiamo nella nostra quotidianità come logiche e normali) descritte nei vari capitoletti del libro, la costante indicazione assertiva del “qui ed ora”. È di ciò che sta succedendo adesso e proprio qui, nel nostro travagliato mondo, in cui anche “le trasformazioni climatiche e ambientali (Antropocene) che annoveriamo come sciagure coincidono perfettamente con i piani dell’intelligenza collettiva capitalistica accelerazionista e transumanista”.

Da qui anche i piani per l’eventuale terraformazione di Marte ricadono nella terraformazione effettiva che ha luogo “qui sulla Terra attraverso mutamenti climatici, virtualizzazione dei rapporti sociali, confinamento della dimensione privata, sviluppo delle IA sociali, svuotamento dei centri urbani, implementazione generalizzata dell’unpleasant design” (2) e così via.

Se “la costruzione di un nuovo mondo somigli davvero all’impresa di insediarsi su un pianeta alieno” è la domanda necessaria da porsi di fronte alla capacità raggiunta di una reale espansione spaziale possibile. Ed è necessaria proprio perché questo “possibile” è compiutamente operante nel nostro arrangiarci a vivere in un mondo sottoposto a un’interazione tra essere umano e ambiente sempre più soggetto a un cambiamento che coinvolge l’uno e l’altro a un ritmo esponenziale sempre più difficile da governare, a livello individuale quanto sociale.

Da qui il continuo interrogarsi dell’autore sui più disparati tentativi che nell’arco dell’ultimo secolo, fino ad oggi, la storia ha bollato come perdenti, falliti o marginali, nel tentativo di cogliere quel qualcosa che riveli possibilità altre da quelle che fino ad oggi ci hanno guidato verso quel muro a cui tutti, anche senza volerlo ammettere apertamente, siamo convinti ormai di andare inevitabilmente a schiantarci.

Per dirla con Primo Moroni, che parlava dal bordo di un “finale d’epoca e di esperienze”, non abbiamo più “un ‘passato’ di cui fare risorsa e non ci sono più quindi i ‘luoghi’ della formazione, dell’esperienza che sono stati distrutti, o resi inservibili uno ad uno. C’è invece la tensione verso un altrove, verso nuovi spazi e luoghi che, questa volta, andranno costruiti, inventati senza far ricorso a quanto di già è stato consumato e distrutto.” E se conclude osservando quanto sia stato “un compito forse troppo grande per una breve stagione di ‘movimento’” (3) ora questo stesso compito dalla difficile quanto improbabile riuscita, deve doversi considerare possibile, perché impossibile è qualunque altra soluzione che accetti lo stato di cose presenti.

Fantascienza è, allora, leggere al contrario e da altra prospettiva, una storia che si vuole unidirezionale. Rimapparla e risignificarla in un nuovo percorso collettivo umano quanto non-umano come in quel romanzo di Philip K. Dick in cui il protagonista si trova a discutere, per un’impresa da farsi collettivamente, con varie specie aliene tra cui anche esseri dei quali si era cibato in qualche ristorante nel proprio pianeta Terra. (4)

Allora con tutti gli alieni possibili, alieni noi stessi, non possiamo  che tentare  questo grande viaggio che dal “cosmoanticapitalismo critico” ci porti al “cosmoanticapitalismo rivoluzionario” rendendoci cittadini dello spazio. In definitiva: terrestri consapevoli di un cosmo che non ci appartiene ma di cui dobbiamo cercare di essere ospiti graditi.

Nota 1: http://archivio-uau.online/archivio.html

Nota 2: “Detto anche design ostile, è una forma d’architettura, generalmente dispiegata in spazi pubblici, studiata per essere inospitale e scongiurare qualsiasi forma di stanzionamento sia umano che animale.”

Nota 3: Intervista a Primo Moroni di Tiziana Villani https://moroniecaronia.noblogs.org/territori-della-trasformazione-e-collasso-dellesperienza/

Nota 4: P. K. Dick, Guaritore galattico.

(Pubblicato nella Bottega del Barbieri https://www.labottegadelbarbieri.org/cosmoanticapitalismo/ )