sabato 31 ottobre 2015

Mauro Folci: intervento al convegno Logic Lane


E così discorrendo conclusero, concordando con Platone, che l'uomo è un animale bipede implume. Erano tutti d'accordo, tutti tranne Diogene che uscito dalla scuola vi fece ritorno con un gallo spennato presentandolo come l'uomo di Platone.



 A un tale che gli assestò un colpo con una stanga e poi gli disse: “Stà attento!”, egli, dopo averlo colpito con il suo bastone, disse: “Stà attento!”.*


Deleuze dice, nell'abecedario della Parnet, mi pare di ricordare quando parla dell'incontro  con Guattarì, che gli incontri si fanno con gli oggetti, con le idee, non con le persone. Strano e forse confutabile con le sue stesse categorie concettuali, strano perché si narra che proprio di Guattarì giungesse prima il corpo e poi i concetti, pare avesse un bisogno irrefrenabile di toccare fisicamente le persone con cui si intratteneva.
Quando si incontrava Antonio Caronia si faceva conoscenza di un pensiero “inattuale” e potente e insieme  l'esperienza della sua incarnazione in un corpo non linguistico, bello, elegante, autorevolmente non contemporaneo con la sua bocca sdentata. Proprio lui, verrebbe da pensare, che ha riflettuto sui mondi futuribili, sul cyborg, sul nuovo umanesimo elettronico, proprio lui, verrebbe ancora di pensare, raffinato e godibilissimo narcisista, rimasto senza denti e con nessuna intenzione, evidentemente, di porre rimedio con una protesi. Questo è un segno forte che oggettivamente ti rinfaccia e ti interroga sul senso di questa, si direbbe in piazza, trascuratezza.
Antonio Caronia era sdentato e sputava. Tanto più era preso dal ragionamento tanto più sputava e sebbene gli incisivi e i canini fossero andati ringhiava e mordeva ai poteri e agli impostori che era una bellezza di rarità. Un cane, un rompicoglioni di kynicòs, un autentico cane intellettuale e artista con la facoltà di un linguaggio  persuasivo e ricco con cui traduceva realtà parallele: un autentico traditore, un falsario di monete.
Antonio è un autentico cinico moderno, un Diogene canino, un grande falsificatore di monete con le virtù del dubbio e la familiarità con l'epoché scettica, in conflitto permanente con il cinismo imperante di questi tempi che tutti noi ben conosciamo e che altrettanto bene argomentò Sloterdijk nello stesso periodo in cui anche Foucault si occupava dei cinici.
Ma per questo Antonio non è una rarità, diciamo che è in buona compagnia, fa parte di quella costellazione di filosofi, di artisti e di scrittori che hanno fatto del discorso franco, del discorso parresiastico una forma di vita e una figurazione di altri mondi possibili.  Quella di Antonio è una forma di vita, possiamo dire ora che vediamo la parabola del suo divenire completa, suggerita in buona parte dalle pratiche politiche e di studio che ha sempre condiviso con i movimenti e con tanti soggetti disobbedienti, pratiche sociali che informano il pensiero analitico e da cui sono informate, una roba ben conosciuta negli anni settanta: è la prassi nel conflitto di classe che determina la struttura teorica.
Non è difficile vedere Diogene il cane vagabondare da un'angolo di strada a l'altro in mezzo alla gente comune che ricambiava, così ci dice Diogene Laerzio, con attenzione e affetto, a insegnare i valori della filosofia e del prendersi cura di sé. Così come non è difficile immaginare Spinoza aggirarsi per le vie di Amsterdam osservando le passioni che affliggono gli uomini e le donne di quella città e riflettendo come la potenza sia il dispositivo di funzionamento della sostanza. O vedere Marx frequentare le bettole dei proletari nei sobborghi londinesi a discutere con loro, ad incazzarsi come una bestia e a bere quel che si poteva bere a quei tempi e in quei luoghi. O Battaille acefalo nei bordelli parigini o Burroughs sempre a rota con il laccio emostatico e la penna in tasca avventurarsi nei bassifondi dei tossici. Cosi Antonio era facile incontrarlo nei centri sociali a sostenere in tutti i modi e con grande generosità le pratiche dell'esproprio e dell'occupazione e del movimento con la stessa passione e intensità con cui frequentava il mondo accademico. Il suo essere con gli altri, la sua postura, l'uso del suo corpo erano la veridizione di ciò che insegnava. Come gli antichi cinici, il rapporto con la verità è immediato, è coerenza di comportamento. La postura crea una zona temporanea di sensibilità estetica autonoma, sospesa e per ciò potente delle figurazione o meglio delle configurazione di mondi altri che Antonio sapeva mostrare con un linguaggio colto e allo stesso tempo creativo: i suoi giochi di verità erano anche dei godibili giochi linguistici che però non mandavano in vacanza il discorso al contrario illuminavano di luce nuova, con parole inusuali, l'oggetto dell'enunciato. Le  conferenze, le lezioni, in generale ogni presa di parola in pubblico era una performance artistica. Antonio è stato un artista e come ogni artista che sia tale ha fatto della propria vita la materia con cui plasmare e dare a vedere il possibile di un altro mondo. 
Wittgenstein dice che creare un nuovo linguaggio vuol dire creare una nuova forma di vita, ed è proprio questa corrispondenza tra linguaggio, ciò che si dice, e la forma di vita il vero discorso parresiastico. E il cuore di tutto questo è l'esempio, è il come della tua vita che attesta il discorso franco.
Antonio è stato un exemplum, un esempio, un esempio come si intendeva dovesse essere il maestro nell'antica Grecia, un confidente nella pratica della parresia, un amico nel discorso di cosa sia un'altra vita, un esempio di condotta.
Platone disse di Diogene che era un Socrate impazzito, è un altro degli aneddoti riportati da Diogene Laerzio, in realtà la discendenza è certa se non fosse che, come dice Foucault nell'ultimo corso del '84, il discorso di verità di Socrate che si esplica in una forma di vita tutto sommato entro la norma, in Diogene si radicalizza nella critica ai falsi valori della cultura dominante e coerentemente fa scandalo con un corpo deprivato di ogni bene superfluo: è seminudo ha un mantello, una bisaccia forse dei sandali, è nudo come può esserlo un animale e come un cane non conosce cos'è il privato, mangia nelle ciotole e si masturba apertamente in strada.
Dovevate vederlo, Antonio, all'occupazione della borsa di milano, era uno scandalo un uomo mingherlino non più giovane e senza denti, con il megafono a batterie attaccato alla faccia di un celerino cinque volte più grande di lui che gli urlava contro a volte ingiurie di servilismo altre volte con tono persuasivo come a volerlo liberare da quel ruolo infame. Questo investire il corpo di testimonianza diretta, di presa di coscienza di sé attraverso la pratica del dire il vero a mio avviso è la cifra non trascurabile per chi voglia avvicinarsi al pensiero di Antonio, perché quella bocca senza denti, che mi fa pensare, con ragione, alla bocca di Acconci in Open book e a quella di Not I di Beckett oltre ad insistere e persistere in quanto organo biologico della prassi pubblica, a me pare, come dice Foucault “la costruzione cinica dell'esistenza filosofica vissuta come uno scandalo”.

Il tema tradizionale della vera vita dei filosofi antichi trasformato in vita altra e di conseguenza in altro mondo dai cinici, percorre tutto il pensiero occidentale dalle fondamenta e ne struttura il principio etico. Ancora Foucault che parla : “si può dire(...)che il cinismo non solo ha spinto il tema della vera vita fino a invertirlo nel tema della vita scandalosamente diversa, ma ha anche posto questa alterità della vita altra, non semplicemente come scelta di vita differente, beata e sovrana, ma come pratica di una combattività al cui orizzonte si profila un mondo diverso”.
Ecco, è precisamente questo il filo che collega gli antichi con i moderni cinici e con Caronia: la vita altra come pratica per guadagnare un mondo altro.
Ma il collegamento non è per nulla scontato perché la parresia dei cinici travasando nelle prime comunità cristiane, nelle diverse forme di ascetismo, si trasformò fin quando con gli ordinamenti monastici, con la legge incondizionata dell'obbedienza al superiore, come il perinde ac cadaver “allo stesso modo di un cadavere” di  S. Ignazio, il discorso parresiastico non è più ammesso anzi è vietato e punito, trasformando  così la vita altra dei cinici in l'altra vita, e un mondo altro in l'altro mondo, ossia il mondo dei cieli: state soffrendo le miserie di questo mondo? Pazientate in cielo ci sarà posto anche per voi.
“Foucault spiega bene come il cristianesimo, - cito Caronia dell'ultima conferenza di E Manu Capere -, avesse trasformato queste pratiche di soggettivazione della cura di sé ellenistica, stoica, epicurea e cinica, e le avesse stravolte, facendole diventare uno strumento di  costruzione e di indagine della soggettività, di indagine dell’interno di se stessi. C’è la famosa frase di sant’ Agostino: “Noli foras ire, in interiore homine habitat veritas”. Non uscire fuori di te, è nell’interno dell’uomo che abita la verità. Foucault per quattro corsi al Collège de France ci spiega come in una serie di culture precedenti, diverse da quella cristiana, la verità non stesse affatto nell’interiorità, ma stesse in una serie di pratiche della cura di sé”.

L'importanza di questo passaggio, è messo in luce molto bene da Agamben in Altissima povertà ragionando sulla questione delle leggi di obbedienza incondizionata al superiore, imposte negli ordini monastici ai propri confratelli, per cui è la norma che impone la condotta ossia la forma di vita giusta che piace a Dio. Ma naturalmente in ogni epoca e sotto qualsiasi condizione c'è sempre l'eretico, il difforme, il cinico che ci aiuta a capire cosa ci fosse in gioco nella conversione della parresia in un ordine di cieca ubbidienza. Un caso interessante, ad esempio, è il primo francescanesimo per il quale il rapporto tra la norma e l'esecuzione della norma medesima si inverte ed è la forma di vita stessa che diviene legge, è la prassi dell'espoliazione e dell'altissima povertà che facendosi esperienza incarnata  informa la dottrina. Francesco, il cui Dio è per alcuni aspetti il Dio di Spinoza che è sostanza e natura, è come Diogene il cane, vicino al moderno disobbediente che viola le norme del dominio statuale-finanziario: il “falsifica la moneta” di Diogene va letto come falsifica la legge, falsifica la norma. Nomisma cioè moneta vuol dire anche  nomos ossia legge, costume e quindi è un'ingiunzione a cambiare di segno, a sovvertire i valori delle cose del mondo, è una trasvalutazione dei valori per dirla con Nietzsche, un monito a cambiare la propria vita e di conseguenza a cambiare le norme dello status quo; due antagonisti si potrebbe dire oggi, senza sovrani perché Francesco e Diogene sono sovrani della propria vita, come ci chiarisce l'aneddoto dell'incontro di Diogene con Alessandro Magno allorquando chiedendogli come avrebbe potuto essergli di aiuto il cinico gli rispose toglimiti dal sole.
Per intendere la portata di questo processo occorre dire che la forma di vita dell'altissima povertà di Francesco presuppone che si possano usare le cose senza possederle, faccio uso della mela, la mangio, ma non ho bisogno di possederne l'albero. Posso usare un mantello per ripararmi dal freddo senza possederlo. E capite bene che qui era in questione una cosa grossa, inaccettabile per il codice giuridico della chiesa che pose fine alla faccenda alienando a se i beni in uso dai francescani come proprietà della chiesa: i francescani continuarono a far uso delle cose senza possederle e al contempo la proprietà fu salva.

I cinici si occupano dell'essenziale il loro campo è l'elementare, cose come la felicità e l'infelicità,  non si occupano di politica, degli affari dello stato come hanno fatto molti filosofi, sono contro il potere politico perché sono sovrani di se stessi e la loro attenzione è rivolta agli uomini e alle donne del mondo intero, non hanno una casa, una patria, una famiglia, in un certo senso sono dei fuori legge.
Il tema della sovranità è il tema madre di ogni movimento di liberazione e naturalmente ha molto interessato Caronia in quanto mette in campo la questione dei poteri, dei saperi e dei processi di soggettivazione e perché è il perno intorno al quale ruota la figura anfibia del biopotere.

Certo i kinici moderni, gli attuali sovversivi dell'ordine discorsivo e delle cose, hanno ben altra realtà di fronte a loro, consapevoli in primo luogo che l’introiezione di ciò che mi definisce come normale e socialmente riconoscibile come pura forza lavoro, come nuda vita votata naturalmente al plusvalore, è il livello più alto raggiunto dalla politica del controllo della vita, ma rimane il fatto come suggerisce Caronia, e dobbiamo ascoltarlo perché alternative non ce ne sono, non c'è resistenza al potere senza una prefigurazione di cosa sia una vita altra.
Termino leggendo la conclusione di Girare su se stessi. Emancipazione, libertà, liberazione, la lezione magistrale del 2012, dove cita ampiamente il lavoro sul cinismo di Foucault. Questo intervento chiuse l'esperienza dei focus di Brera a cui abbiamo collaborato, con altri, per otto anni:

“Nel mondo greco-romano c’era un modo per liberare gli schiavi. Nel I secolo d.C., il filosofo stoico Epitteto era uno schiavo liberato, e tanti personaggi della cultura di allora lo erano. La parola “emancipare” deriva dal rito attraverso il quale si emancipava uno schiavo. “Emancipare”: e manu capere, prendere con la mano. Si andava davanti a un pretore, il padrone imponeva la sua mano sulla testa dello schiavo e lo faceva girare su se stesso. Questo gesto compiuto davanti al pretore significava che lo schiavo era liberato.
Come ricorda Foucault in L’ermeneutica del soggetto (un altro dei corsi al Collège de France), Seneca ed Epitteto citano questo rito, che era a loro contemporaneo, come una metafora del potere della filosofia, perché la filosofia ha la capacità di liberare l’uomo, di affrancarlo, di farlo diventare libero. Foucault vuole suggerirci che effettivamente avremmo bisogno di fare un giro su noi stessi, di cambiare prospettiva, di conquistare un punto di vista diverso. Se vogliamo contribuire alla costruzione di un movimento che modifichi lo stato di cose presente, che provi a fermare o quanto meno a diminuire la capacità del capitale di dominare troppo tracotantemente sulle nostre vite, abbiamo davvero bisogno di fare un giro su noi stessi, cioè abbiamo bisogno di strumenti, come quelli che possiamo trovare in Foucault e in tanti altri. Però, lasciate che ve lo dica, non abbiamo bisogno di nessuno che ci tenga la mano sulla testa”.



*aneddoto che racconta Diogene Laerzio su Diogene il cane

sabato 24 ottobre 2015

Giuliano Spagnul: intervento al convegno Logic Lane




Abstract
“Alle volte il mondo corre il serio pericolo di finire senza che nessuno se ne accorga. Così, di colpo. Se questo non è ancora successo forse ciò è dovuto a delle piccole azioni che alcuni esseri umani hanno compiuto con naturalezza e senza enfasi. Nessuno li ha ringraziati per questo, ma la felicità che hanno potuto provare in quei momenti li ha comunque ricompensati.”  (Più prudentemente sarebbe  meglio dire: forse li ha in qualche modo ricompensati)
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Nella primavera del 2012 Antonio ed io abbiamo curato per l’editore Mimesis la ristampa del libro del collettivo di Un’ambigua utopia edito nel 1979 da Feltrinelli. Per la stesura della nuova introduzione ci siamo scambiate alcune mail.
Due sono del 24 marzo 2012:
 “Rileggo tutto questa sera e ti rimando una mail domani mattina, intanto mi sono accorto accidenti di aver omesso una virgola nella citazione di Musil, ti mando anche la pagina del testo. Ciao Giuliano”                                                                           
“Mi dispiace far la parte del saccente, ma io mi ero già permesso di aggiungerla, quella virgola, all’ultima rilettura, anche senza aver trovato il testo nel libro (neppure cercato…) J Ant”

In quello stesso anno, l’ultimo di Antonio, il 3 luglio 2012 Antonio risponde con entusiasmo all’invito di Giovanni Leghissa a scrivere un articolo per Aut Aut sul numero monografico dedicato al postumano e gira la mail a amiche e amici.
“Grazie davvero dell’invito. E anche della bellissima notizia, che tale sarebbe anche se io non fossi stato invitato a scrivere J. La rivista filosofica a cui sono più affezionato affronta uno dei temi a cui (con pochi o tanti risultati) ho dedicato gran parte della mia ricerca. Non potrei essere più contento” e conclude più oltre “leggerò e mediterò più attentamente il progetto che hai formulato, e ne terrò conto in modo più articolato di quanto non stia facendo adesso, ancora preso da una (per me piacevole) euforia.”
Sono gli ultimi mesi, gli ultimi 6 mesi, in cui Antonio avrà ancora energie per pensare, progettare, fare.
Ma di quell’intervento, di quel lavoro che gli procurava quella “piacevole euforia” non ne farà nulla. Potrei sbagliarmi ma non mi risulta che ci abbia neppure provato.
 Di fronte alla sua personale fine del mondo Antonio, alla conclusione della sua vita, non ha lavorato a quello che poteva essere il suo testamento, il suo lascito teorico su un tema per lui così decisivo come quello del postumano, su una rivista prestigiosa. Ha dedicato invece le sue ultime energie a tutt’altro, a un seminario (a Macao) su un tema molto dibattuto negli anni ’70 ma assai impervio da affrontare oggi, quello su normalità e follia.
Certo, c’era una motivazione forte. Tra le parole chiave del seminario la più importante era MALATTIA, ed è a questa urgenza privata che si lega l’esigenza non di predisporre un testamento ma al contrario l’idea di un ricominciamento, qualcosa su cui ricominciare, iniziare da capo.
Ernesto De Martino, uno dei più importanti antropologi del Novecento, l’unica figura di intellettuale italiano del ‘900 che possiamo accostare a quella di Michel Foucault, di cui ricorre proprio quest’anno il cinquantenario della morte, nel libro postumo sulla fine del mondo (contributo all’analisi delle apocalissi culturali) scrive:
“Eppure, se un giorno, per una catastrofe cosmica, nessun uomo potrà più cominciare perché il mondo è finito?” “Ebbene, che l’ultimo gesto dell’uomo, nella fine del mondo, sia un tentativo di cominciare da capo: questa morte è ben degna di lui, e vale la vita e le opere delle innumerabili generazioni umane che si sono avvicendate sul nostro pianeta.”
Un tentativo di ricominciare da capo è stato l’ultimo gesto che Antonio ci ha lasciato. Ricominciare, ricominciare ancora una volta.
Antonio, io credo, è sempre stato attratto dall’idea che possa darsi una forma di vita in cui possa formarsi un nuovo tipo di umano capace di vivere senza la necessaria, reale o immaginaria che sia, distanza tra se e il mondo.
Capace però di mantenere quel grado di libertà che solo quella distanza, quella radura in cui ci si trova gettati, senza protezione alcuna, sembra poterci garantire.  
Antonio ha lavorato su due sponde opposte dell’umano: quella che difende la distanza e che per sua natura necessita di sistemi protettivi, illusori, creati ad hoc e che vanno alimentati e rinnovati incessantemente; e quella che sembra profilarsi in questo mondo supertecnologizzato che assottiglia sempre più questa distanza fino, forse, in prospettiva a cercare di farla sparire del tutto.
Questa dicotomia nel lavoro di Antonio è il suo lascito più ricco perché è questo il conflitto interno ed esterno a noi in cui oggi ci stiamo giocando tutto.
E allora alle soglie della propria personale fine del mondo cosa può significare una virgola dimenticata? Soprattutto esser contenti di non averla tralasciata, lasciata scivolar via; di aver impedito una noncuranza, una leggerezza.
In realtà una virgola può essere decisiva, qualcosa da cui può dipendere il destino del mondo. E chi potrebbe affermare con sicurezza il contrario? E se a causa di quella mancata virgola il mondo avesse cessato di esistere? Non l’apocalisse, con tanto di trombe e giudizio, ma un pluf! E il mondo non c’è più. Tutto a causa di una virgola.
Antonio ha certamente potuto tirare un sospiro di sollievo, anche senza il testo originario, senza un’indicazione esterna c’è arrivato da solo e così forse ha potuto pensare con sollievo che il mondo, in quel momento e per quel motivo, non sarebbe scomparso ancora.
Poi, certo, per lui sarebbe finito comunque a breve, ma avrebbe avuto ancora una chance personale per fare un altro gesto ancora, un gesto per ricominciare da capo.
E ricominciare da capo significa porre ancora una volta una distanza tra se e il mondo.
E così Antonio ha fatto una scelta. Se mai avesse vissuto ancora ci avrebbe di nuovo ripensato.

Forse questo, in definitiva, è proprio uno di quei conflitti, che come lui sosteneva, non si possono e non si devono risolvere una volta per tutte. 

Sabato 27 ottobre: l'intervento di Mauro Folci 

martedì 20 ottobre 2015