martedì 6 gennaio 2015

Nei labirinti della fantascienza. Introduzione 2012



La fantascienza, il futuro, il residuo dell’immaginario
Introduzione 2012
Di Antonio Caronia, Giuliano Spagnul

Tutto ciò che si sente e si fa accade
comunque sia «in direzione della
vita» e il più piccolo movimento in
altra direzione è difficile o inquietante.
E così anche quando semplicemente
si cammina; si solleva il punto di gravità,
lo si porta in avanti e lo si lascia cadere;
ma basta un piccolo mutamento, un
lieve timore, o anche soltanto stupore
di quel lasciarsi-cadere-nel-futuro e
non si sta più ritti!

(Robert Musil, L’uomo senza qualità)

La fantascienza nasce negli anni 1920 sulle riviste pulp americane e muore negli anni 1980 con il fenomeno del cyberpunk. Sintesi lapidaria della breve vita di un genere letterario popolare. Vero, non vero, azzardato? Sgombriamo il campo da inutili discussioni: è un’affermazione né più vera né più falsa di altre, che pure sono possibili. A noi sembra semplicemente più utile. Se si retrodatasse la nascita della fantascienza a Swift, o ancora più indietro a Luciano di Samosata o ad Apuleio,  avremmo solo allargato la  frittata, ci troveremmo di fronte una specie di genere letterario sempre esistito, che comprende tutto e niente; e in più avremmo dato la stura a una oziosa sequela di  distinguo, questo progenitore sì, quello no, ecc. Vediamo un’altra alternativa: Scholes e Rabkin,  per  esempio, propongono una data più recente, il 1818, anno di pubblicazione di Frankenstein di Mary Shelley. “Possiamo renderci conto,” scrivono i due critici, “(…) di come Mary Shelley ha cambiato la sua realtà proiettando nel suo stesso periodo storico una scoperta scientifica che avrebbe potuto verificarsi un giorno. Introdusse così un frammento di un possibile futuro nel suo stesso mondo e modificò per sempre le possibilità della letteratura.” (1) Non c’è dubbio, è una lettura interessante e plausibile della genesi del genere fantascientifico, ma è troppo legata a un discorso tutto schiacciato entro il genere stesso. Un discorso che certo nobilita e affranca, ma proprio per questo tende a sgrossare, a cancellare tutto quello che non viene ritenuto all’altezza, immaturo, ingenuo o addirittura ridicolo. La fantascienza che abbiamo conosciuto noi relegava Verne al mondo dell’infanzia e Asimov alla letteratura di svago, da treno, in uno stato di semi clandestinità o per circoli di fanatici adoratori considerati un po’ carenti di materia grigia. Uno svago, un’evasione, come veniva definita negli ambienti politici, militanti o semplicemente impegnati, anche dopo la presa di posizione di Sergio Solmi, che nel 1959 aveva messo sulla bilancia tutto il peso della sua autorevolezza di studioso “mainstream” curando per la prestigiosa casa editrice Einaudi, con il giovane Carlo Fruttero, un’antologia di fantascienza, Le meraviglie del possibile: un’operazione editoriale e culturale che fece epoca..
Il vero “sdoganamento”, però, avviene nella seconda metà degli anni 1970 ad opera del nostro collettivo di Un’ambigua utopia, e grazie a un’attenzione e una disponibilità nuova da parte di un movimento stanco di un grigio militantismo e aperto a esperienze altre. Il libro che avete fra le mani è uno dei documenti, forse uno dei più importanti, di quell’operazione. Uscito nell’Universale economica Feltrinelli nel novembre del 1979, Nei labirinti della fantascienza fu l’ultima fra le pubblicazioni italiane dello stesso tipo apparse fra il 1977 e il 1979 a cura dei principali esperti del settore (Curtoni, Lippi, Montanari, Cremaschi). La fantascienza era arrivata nelle librerie, in Italia, all’inizio degli anni 1970, e a metà del decennio aveva conosciuto un piccolo boom: le varie “guide alla fs” erano una ovvia conseguenza di quel boom. Alla fine del 1980 Nei labirinti della fantascienza aveva venduto circa 10.000 copie, esaurendo in pratica la tiratura (e non venendo mai  ristampato prima di questa riedizione). Crediamo si sia trattato del risultato migliore per un libro di critica della fantascienza in Italia.
Abbiamo già chiarito in altre sedi che l’esperienza di Un’ambigua utopia non fu prioritariamente qualcosa di “interno” al mondo della fantascienza: il collettivo usò la fantascienza come una chiave di lettura della realtà sociale e uno stimolo (o una riserva di immaginario) per pratiche che erano tutte interne al movimento di quegli anni. (2) Tutto ciò emerge anche dall’esame di questo libro, che teneva a distinguersi dalle altre guide consimili allora in circolazione, presentando un approccio diverso, non fittiziamente neutrale, ma apertamente partigiano e al servizio di un discorso per nulla interno al settore. Per questo nella “Avvertenza” che apre il volume scrivemmo: “[Al pubblico] non offriamo una enciclopedia, o una guida onnicomprensiva, ma una proposta di lettura della fantascienza, come tutte le proposte unilaterale, o, se si preferiscono parole più forti, settaria. (…) Essa fa perno su un’idea di fondo: che la fantascienza sia, fra i generi di narrativa popolare, quello che strutturalmente si presta più di altri a riflettere, rielaborare, restituirci, le contraddizioni della nostra vita, pubblica e privata, le aspirazioni, le tensioni, gli incubi che percorrono il tessuto sociale e le storie personali di ognuno di noi.”
Certo, il fine editoriale del libro era quello di fornire un quadro dell’evoluzione della fantascienza come si presentava negli ultimi anni 1970: al centro del discorso c’era perciò il processo che aveva portato alcuni autori e alcune tendenze, fra gli anni 1960 e 1970, a una maggiore consapevolezza e una maggiore apertura alle influenze del sociale, con un’attenzione più  articolata e precisa alla natura del potere, e una embrionale riflessione sulle forme linguistiche. I nomi erano già allora, nel 1979, quelli che sarebbero rimasti al centro di questo dibattito sino a oggi: Philip K. Dick, James G. Ballard, Samuel R. Delany – e il nume tutelare che aveva acceso due anni prima in quasi tutti noi la scintilla dell’intuizione di un uso politico della fs, e che aveva suggerito il nome del collettivo (Ursula Le Guin) cominciava ad affievolirsi e a spostarsi in secondo piano. Sulla scorta di Baudrillard (che rappresentò per alcuni di noi l’influenza più rilevante di quegli anni), si individuava il tratto più caratteristico di questa “nuova fantascienza” in una diversa visione dei rapporti fra “reale” e “immaginario”. Nell’introduzione “Incarnazioni dell’immaginario” si legge:

Proprio perché la distanza fra immaginario e reale è abolita, proprio perché siamo immersi in un universo iperreale, la nuova fantascienza può fornirci strumenti così fini di rappresentazione e di critica della realtà. Non è più la vecchia dialettica fra utopia e antiutopia, fra letteratura apologetica (impegnata a descriverci i paradisi della tecnologia, della produzione, della libera iniziativa, della frontiera, della bontà o del socialismo) e letteratura di denuncia dei “nuovi inferni”. La scrittura della nuova fantascienza, piuttosto, è impegnata in operazioni di destrutturazione del reale, di esplorazione di nuovi codici comunicativi, in un universo che la crisi e la scomposizione del linguaggio tiene costantemente aperto. (3)

Ma si capisce bene che al fondo di questo discorso ci sono le preoccupazioni sulle potenzialità esplosive della situazione sociale e insieme sulla evidente tendenza al declino e alla sconfitta dei movimenti, c’è la richiesta (certo ingenua, e ancora dogmatica, in fondo) che la fantascienza ci dica una “verità” sulla società che ci era sinora sfuggita, nella pesantezza e nella rigidità dei marxismi in cui si era invischiata la nostra formazione, e che avevano dato una così misera prova, alla resa dei conti. C’è anche l’intuizione – non più di una confusa intuizione, certo – che in una letteratura si possa trovare meglio che in altri luoghi culturali un antidoto alla mortifera separazione fra strategia e tattica, fra universalità (o totalitarismo) della teoria, e concretezza (o miseria) della pratica. E tanto meglio, forse, se quella letteratura è una letteratura di consumo, fangosa, poco “nobile”, attraversata da esigenze di comunicazione immediata, capace anche di giocare con modelli sensazionalistici e “di cassetta”. Il finale di quell’introduzione, riletto a più di trent’anni di distanza, si rivela forse ciò di cui allora non potevamo essere consapevoli, e cioè un appello disperato alle nostre risorse di narrazione e di affabulazione perché ci preparassero a un passaggio difficile e periglioso, ci traghettassero da una forma del conflitto sociale che (lo sapevamo confusamente, ma lo sapevamo) era ormai esaurita, a un’altra, che ancora non sapevamo vedere – e meno che mai eravamo in grado di prevedere:
Sappiamo, certo, che la liberazione non ci aspetta nelle pagine dei libri. Ma, se rifiutiamo alla scrittura un ruolo consolatorio (quel ruolo, dice ancora Foucault, che è dell’utopia), siamo in diritto di chiedere anche alla fantascienza un contributo alla comprensione di quello che siamo, all’elaborazione di altre forme di socialità, di altri codici di comunicazione, di qualche nuova, modesta teoria locale. Consapevoli che i suoi sentieri sono accidentati e, inevitabilmente, ambigui.(4)
La nostra esperienza – come tutte le esperienze di quegli anni che facevano i conti con quella che allora si chiamava “crisi della militanza” – è stata spesso etichettata come “riflusso”. Va bene, accettiamo il termine. E perché no? un’onda deve sempre poter tornare indietro, all’interno dove è stata generata, per poter ripartire, per poter produrre altre onde, se mai anche anomale. Anomala è stata già la nostra partenza, lo slogan che auspicava la distruzione della fantascienza. Anomalo è forse adesso da parte nostra questo voler far partire un genere letterario da un cumulo di riviste spazzatura. Ma è un’anomalia che ci permette di capire una specificità di questo genere letterario che altrimenti andrebbe persa, o quantomeno annacquata.
L’Ottocento, secolo delle invenzioni, dell’entusiasmo per un progresso che si pensava inarrestabile, prodotto di un capitalismo all’apice delle sue potenzialità, aveva creato come scarto (come resto, per dire meglio), una letteratura fantastica, avveniristica, che non poteva sopprimere quel tanto di inquietudine che l’idea del progresso inevitabilmente portava dentro di sé. L’invenzione, motore del progresso, poteva sempre rivoltarsi contro il suo inventore. La creatura contro il suo creatore. È un rovescio della medaglia necessario, indispensabile all’idea stessa di progresso. Michel Foucault attribuisce agli scienziati protagonisti delle opere di Jules Verne il compito di lottare contro l’entropia, “incessantemente contro il mondo più probabile – mondo neutro, bianco, omogeneo, anonimo – il calcolatore (geniale, pazzo, cattivo o distratto) permette di scoprire un fuoco ardente che assicura lo squilibrio garantendo il mondo dalla morte.” (5) Il Novecento – e soprattutto il Novecento vissuto nel nuovo centro del mondo, che dall’Europa si è spostato in America – non ha più al primo posto l’idea del progresso, ma quello del benessere; non più la macchina, l’invenzione, ma la merce, il prodotto, un’inarrestabile produzione di merci necessaria a raggiungere l’obiettivo più agognato dall’uomo moderno, la felicità, che solo una continua produzione di benessere a buon mercato avrebbe potuto procurare. L’ottimismo ottocentesco per il progresso illimitato non poteva eliminare il senso di minaccia, ben visibile a chi dall’interno dell’acquario proustiano osservava quell’umanità derelitta che dall’esterno stava attaccata al vetro, esclusa, priva di ogni illusione di poter partecipare al banchetto, eppure per nulla rassegnata, anzi minacciosa. Ma anche la novecentesca società consumistica americana aveva il suo incubo. Essa viveva nella costante minaccia che quella fetta di paradiso che si prometteva a tutti subito e a poco prezzo, potesse finire, esaurirsi: che il paradiso non bastasse per tutti, era in realtà un segreto di Pulcinella. La faccia nascosta dell’America,  quella in fila per il pane davanti a un manifesto della felice famiglia americana media, immortalata da un celebre scatto di Margaret Bourke White (1937), è lì a ricordarcelo.
Il progresso perpetuo, il consumo illimitato. Due utopie che caratterizzano due diverse fasi in due diversi luoghi di un capitalismo maturo. Paure e minacce che si caratterizzano in modi e con tempi diversi. L’incubo delle masse, della rivoluzione, lo spettro del comunismo per l’Europa ottocentesca  (una prospettiva che di fatto genererà realtà opposte nello sviluppo novecentesco); l’incubo della crisi, della fine della produzione e della crescita, della recessione insomma, per il nascente impero americano. Anche quest’ultimo, col suo capitalismo avventuriero, dinamico, libero da lacci e lacciuoli del tipico stato nazionale europeo, produce uno scarto, un resto, un residuo non ulteriormente lavorato, nel campo dell’immaginario. Il vorace consumismo del capitalismo avanzato americano rende nevrotico tutto l’immaginario ad esso più strettamente collegato, quello inventivo, tecnico, scientifico. Certamente la fantascienza è il prodotto di una società consumistica, ma più per il suo lato inquietante, possiamo dire sinistro, se consideriamo il soffio di distruttività che l’idea di consumo porta con sé. La fantascienza delle riviste pulp, così come il cinema dell’epoca, nella sua iperbole distruttiva e profondamente anarchica espressa dal genere slapstick, testimoniano la vera tensione soggiacente al mito dell’eterno benessere rinnovantesi all’infinito, che si voleva spacciare alla popolazione più ricca del pianeta. Ma far nascere lì e proprio lì la fantascienza, indica per noi anche una sostanziale differenza tra due diversi modi di rapportarsi al futuro. Come osservano ancora Scholes e Rabkin, “la fantascienza ha potuto cominciare a esistere come forma letteraria solo quando gli uomini hanno potuto concepire un futuro diverso, e precisamente un futuro in cui nuove conoscenze, nuove scoperte, nuove avventure, nuovi mutamenti avrebbero trasformato la vita in modo radicale rispetto ai modelli del passato e del presente.” (6) I due critici parlano a questo proposito di un vero e proprio future shock per tutta l’umanità. Per la fantascienza che noi vogliamo delimitare entro il più angusto confine del xx secolo, invece, non c’è più lo shock di un futuro che potrebbe avverarsi, ma lo shock di un futuro che avviene, che si avvera ogni giorno. Se acquistando una macchina, una lavatrice o un altro oggetto del desiderio, si entra di fatto nel futuro, si vive nel futuro, allora il futuro si situa nel presente. Il futuro non potrebbe più accadere in questo o quest’altro modo, ma accade così, in questo modo. Siamo nel futuro, non dobbiamo più aspettarlo. È un futuro che si vive, che non si annuncia più, che c’è. E c’è perché lo si può comprare. È anch’esso in definitiva una merce, o meglio, una qualità della merce stessa. Sta allegato al prodotto, sua caratteristica intrinseca. La coscienza di questo “lasciarsi-cadere-nel-futuro”, lo stupore e il timore di vivere il futuro invece di aspettarlo, creano un’instabilità, non più semplicemente antientropica, come quello squilibrio di cui parlava Foucault, indispensabile a non far morire il mondo, a non cristallizzarlo. È un’instabilità di nuovo tipo, che pone al suo centro, nell’occhio del ciclone, un caleidoscopio che centrifuga tutti i possibili modi di pensare, conoscere, amare, godere, impazzire, ecc., degli abitanti della moderna società dei consumi. Un’instabilità che lotta contro l’arresto, la paralisi. La paralisi che la coscienza del movimento, di questo muoversi costantemente dal presente al futuro, inevitabilmente porta con sé. Per muoversi, per spostarsi, occorre non pensarci, altrimenti non si sta più ritti, come avvertiva Musil. La girandola di tutti i possibili è efficace, ma può durare fino a che nella società il senso del futuro respira ancora una certa autonomia dal presente, quando ancora ci si può stupire. Tutto questo finisce quando il germe contenuto nell’avverarsi continuo del futuro nel presente sboccia in un presente perpetuo, in cui il futuro non è più distinguibile. È il presente che stiamo vivendo adesso, in cui non è più necessario, camminando, spostare il punto di gravità per lasciarsi cadere in avanti, nel futuro, ma in cui basta lasciarsi scivolare. Lasciarsi trascinare dal fiume indifferenziato del tempo, di un tempo totalmente costruito, incanalato, gestito da altri.
Ecco perchè, se in base a queste considerazioni ci è piaciuto dare alla fantascienza quei miserevoli natali pulp , ci piace anche considerarla, oggi, definitivamente morta e sepolta. Non per una nobilitazione in estremo, sulla scorta della “morte dell’arte” e di discorsi del genere, ma per ribadire il suo legame a doppio filo con la fame di futuro che l’ha vista nascere. Con l’esaurirsi del futuro, per effetto del suo amalgamarsi completo col presente, la fantascienza perde la sua funzione di sentinella, di monolite ai confini dell’infinito, di termometro della possibilità di futuro. L’idea di futuro è un’idea ormai troppo radicale, in odore di sovversione, per poter essere tollerata nel mondo dell’oggi perpetuo. E se il cyberpunk definisce simbolicamente un termine plausibile del genere fantascienza, un’altra data potrebbe sancire ancor meglio questa ipotetica fine: il 2 marzo 1982, giorno della morte di Philip K. Dick. Che cos’è l’opera di Dick se non il rimasticamento e il rigurgito di tutta la letteratura di fantascienza? Dick, lo scrittore che ambiva ad essere “scrittore” e che ha dovuto ripiegare suo malgrado (per nostra fortuna) a guadagnarsi il pane con stupidi racconti di fantascienza. In questo modo ha rimanipolato tutto il genere senza restituire ad esso nulla, ma creando un’opera autonoma, capace di un pensiero fecondo generatore di potenzialità ancora tutte aperte, se non addirittura da esplorare. Dick è insomma l’autore che ha saputo fare della fantascienza davvero una cassetta degli attrezzi, che lui stesso ha usato e poi ha lasciato in eredità a tutti noi. Sancire la fine della fantascienza, per noi, ha lo scopo di rendere viva la sua potenzialità vivificante, una sorta di spray-ubik per creare realtà, per fare mondi. È possibile discutere del prodotto filmico Avatar o della pratica dei trapianti d’organo, senza (consapevolmente o meno) essere immersi in quell’enorme ragnatela culturale rappresentata dai romanzi, fumetti, pubblicità, prodotti per la tv, rotocalchi ecc. di fantascienza del secolo scorso? Quanto hanno inciso e quanto incideranno ancora nella nostra capacità di fare mondo, nel bene e nel male? Se “solo un individuo le cui trasformazioni risultassero prevedibili si potrebbe considerare immortale, ” (7)  lo stesso si può dire per un prodotto culturale. La fine apre all’inizio, la morte alla vita. E infine, ancora, quale “mondo oltre la collina” (8) possiamo oggi desiderare ancora di immaginare se non quello di una valle che lotta contro il TAV? Giovani (comunque), percossi ma non rassegnati.
“I ragazzi continuavano a osservarci. Due prigionieri politici, vecchi ai loro occhi, sporchi e laceri, sconfitti, che consumavano in silenzio il loro pasto. La radio a transistor suonava ancora, a volume più alto. Nel vento, potevo sentirne altre che spuntavano dovunque, in ogni parte del paese. Erano i ragazzi, pensai, che le accendevano. I ragazzi.” (9)

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(1). Robert Scholes, Eric S. Rabkin, Fantascienza. Storia, scienza, visione, Pratiche, Parma 1979, pag. 15.
(2). Antonio Caronia, Giuliano Spagnul, “Storia di una cassetta degli attrezzi”, in: Un’ambigua utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni ’70, a cura di A. Caronia e G. Spagnul, Mimesis, Milano 2009, vol. I, pp. 7-10.
(3). Antonio Caronia, “Incarnazioni dell’immaginario,” questo volume, p. **
(4) Ivi, p. **
(5). Michel Foucault, “La tecnica narrativa di Jules Verne,” in: J. Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni, Einaudi, Torino 1994, pag. XII.
(6). R. Scholes, E.S. Rabkin, op. cit., pagg. 14-15.
(7). Gilbert Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, trad. e cura di G. Carrozzini, Mimesis / Centro internazionale insubrico, Milano/Udine 2011, vol. I, pagg. 321-22.
(8). Alexei e Cory Panshin, Mondi interiori, Nord, Milano 1978.

(9). Philip K. Dick, Radio libera Albemuth, Fanucci, Roma 1996, p. 321.