lunedì 5 dicembre 2016

"Distruggere l'utopia" di Giuliano Spagnul

da Un'ambigua Utopia marzo-aprile 1979 (disegno di Elisabetta Cassari) 
(da: Mondi altri. Processi di soggettivazione nell'era postumana a partire dal pensiero di Antonio Caronia, a cura di Amos Bianchi e Giovanni Leghissa, Mimesis 2016)
                
  “L’uomo senza utopia, precipita nell’inferno
 di una quotidianità che lo espropria di ogni
 significato e lo uccide a poco a poco.”
Antonio Caronia, Il corpo virtuale

L’uomo senza utopia, l’uomo senza qualità, l’uomo senza, l’uomo espropriato di ogni significato. Condizione a cui dobbiamo rassegnarci a vivere oggi oppure ciò contro cui dobbiamo combattere con tutte le nostre forze? “Praticare l’utopia, non sognarla”1 facile slogan che sembra risolvere il problema del paradosso utopico, la realizzazione dell’utopia che si ritorce contro se stessa divenendo nel suo concretizzarsi, distopia.2 Ma cosa significa praticare qualcosa che per sua natura non può essere praticata? È solo una provocazione, un ossimoro che al contrario di quello che afferma, serve a farci sognare ancora? L’intera opera di Antonio Caronia è attraversata, e forse tenuta insieme, dal filo rosso dell’utopia che si ripensa, si problematizza, deve decidere se esserci ancora o farsi definitivamente da parte. La citazione di Caronia, qui usata come esergo, prosegue con la desolante constatazione che l’essere umano “appena mette mano alla realizzazione di quella utopia, al tempo stesso prepara le condizioni per una quotidianità sempre più atroce.”3 In una bella immagine Edoardo Galeano risolve, pensa di risolvere, l’ambiguità dell’utopia definendola come un orizzonte verso cui si procede, il cammino che si compie è in sé l’utopia che si realizza. Ma è solo, appunto, una bella immagine, i problemi legati all’utopia non sono solo quelli che si concretizzano una volta che questa si sia realizzata, ma riguardano, più spesso, proprio la direzione del suo procedere. I compagni che sbagliano sono quelli che non sono allineati verso la direzione giusta; quella, e solo quella, che porta al sol dell’avvenire. Antonio Caronia, da militante socialista, poi trozkista, saltando il breve interludio del ’77, ha intrapreso una sorta di militanza “culturale” nel collettivo di Un’ambigua utopia4 per costruirsi infine un abito su misura da intellettuale, come lui stesso qualche volta si è definito, di tipo deleuziano. Sarebbe profondamente sbagliato pensare Caronia come un pentito del marxismo, come uno che avesse capito che la via dell’utopia non fosse quella intrapresa da Marx e soci ma invece proprio quella di quei poco amati e mal sopportati compagni di strada degli anarchici. E il termine libertario nel suo caso sembra più una comoda foglia di fico per nascondere, la ben precisa e scomoda posizione critica di chi, come lui, è disposto a tagliare i ponti verso qualsivoglia ipotetica rifondazione per intraprendere un percorso la cui novità non è dettata solamente da un desiderio del nuovo, quanto piuttosto dalla consapevolezza del dispiegarsi davanti a sé di un’era affatto nuova. Che il superamento di questa soglia porti poi di conseguenza verso la direzione dell’auspicabile uscita dal neolitico5 è tutt’altra cosa, quello che è certo invece è che ad essere messa discussione, e in modo radicale, è la necessità stessa dell’idea di utopia. Il lavoro cultura all’interno del collettivo di Un’ambigua utopia tra il 1978 e il 1982 è stato per Caronia un autentico corpo a corpo con l’utopia. Nel n. 2 della nuova serie della rivista, numero speciale sull’utopia,6 Caronia enuclea, in un cappello introduttivo a un dibattito interno al collettivo sull’argomento, i termini della questione:

“Una ricognizione, molto approssimativa, dei temi in discussione oggi sull’idea e la pratica di utopia ci porta dritto ad affrontare una serie di questioni forse irritanti, certo spinose. Che il concetto di utopia nascondesse molti trabocchetti l’abbiamo sempre saputo (e l’hanno saputo prima di noi coloro che si sono sforzati di ritrovare questa idea guida in una tradizione marxista sempre più sclerotizzata). Ma il disagio, l’imbarazzo, possono venire quando ci sentiamo proporre da settori (ex-settori) del movimento (ex-movimento) interrogativi ben più radicali, per esempio questo: esiste ancora la possibilità di un’utopia di parte proletaria (o marginale, o di qualunque soggetto si assuma come referente per un processo di rovesciamento dello stato di cose presenti) come idea guida dei comportamenti, o piuttosto l’utopia, in quanto progetto totalizzante, non risulta sempre e forzatamente di parte capitalistica, anche quando chi si assume il compito di progettare un futuro alternativo lo fa in nome di interessi e bisogni che si vorrebbero anticapitalistici? La programmazione del futuro, più esplicitamente, è un metodo, uno strumento, di cui si possono appropriare diverse forze sociali, diversi soggetti, per fini diversi, oppure porta in sé congenito, impresso a fuoco il marchio della totalizzazione e della logica del dominio?”.

Nel dibattito che segue alle considerazioni di un compagno che dice: “a livello collettivo manca qualcosa che possiamo definire ‘utopia’. L’utopia è un ‘fatto’ che deve diventare collettivo.”  Caronia risponde: “L’utopia no, la liberazione si.” E prosegue più avanti:

“il ‘noi’ era qualcosa da costruire nell’organizzazione, nel partito, nel sindacato, nel movimento, nell’occupazione della casa. Invece il ‘noi’ oggi è già un dato di fatto, perché siamo massificati, è il capitalismo che ci ha portati a questo. Marx ha detto che il capitalismo è l’unico tipo di società che permette di passare dalla preistoria alla storia. Furono gli epigoni poi, a cominciare da Engels, a interpretare: cerchiamo di realizzare al meglio l’utopia capitalistica e poi programmeremo il socialismo. E se lo sono pigliati nel culo. Il ‘noi’ oggi è dato dai comportamenti diffusi, perché il noi è già costruito, è la realizzazione del ‘noi’ che non è ancora costruita, ma bisogna costruirla anche al di fuori di un’organizzazione solidaristica, movimentistica nel senso classico. E’ questa la divergenza che è apparsa stasera. Stiamo facendo una rivista e ognuno di noi vive questa esperienza in modo diverso e io sono contento di viverla in modo diverso dagli altri. Se dietro a ‘Un’ambigua utopia’ ci fosse un progetto complessivo non ci starei, perché la vedrei come una riedizione della militanza.”

L’incontro di Antonio Caronia con un gruppo, con un “noi” che non rinnega una precisa affiliazione politica ma che rifiuta una qualsivoglia progettualità a cui dover aderire collettivamente gli permette di portar avanti una propria ricerca personale, un proprio progetto di lavoro capace di avvalersi degli stimoli e dei confronti con quello degli altri senza dover imporre necessariamente il proprio. Trent’anni dopo la fine di questa esperienza, in una video-intervista parlando del suo punto di vista sull’arte nel movimento, prospetta una modalità del lavorare insieme in cui il criterio generale “sarebbe quello di un posto, di un collettivo, di un luogo in cui l’attenzione sia contemporaneamente o in tempi molto vicini, in modi molto vicini, al modo in cui sorgono le idee, al modo in cui sorgono i progetti, al modo in cui si pensa l’innovazione espressiva e contemporaneamente la si pratica, la si mette in opera” insomma, quasi un’ambigua utopia riadattata per il nuovo millennio.   Se stiamo entrando, se siamo entrati in una nuova epoca dell’umanità che comporta “una trasformazione delle basi e della modalità della vita associata talmente radicale da far parlare più d’uno di ‘mutazione antropologica’”,7 allora questa mutazione può portare minacce tanto quanto promesse per la nuova era che necessariamente consegue al nuovo uomo. Caronia non cade nel facile trabocchetto di una “mutazione antropologica” come inevitabile conseguenza di una “tecnologia intesa come agente autonomo (…) questo è ciò che credono, da punti di vista opposti ma convergenti i cantori delle meraviglie e i lamentatori degli obbrobri della rivoluzione informatica. La tecnologia è figlia di un’attività umana, e come tale non è causa, ma sintomo eclatante, elemento mediatore, simbolo della trasformazione che ci avvolge.”8 Caronia insomma, fin dagli anni ’80, ci dice che la tecnologia è il classico dito che indica, ma la luna indicata è sempre e comunque l’essere umano. Minacce e promesse sono connaturate alla “naturale” artificialità dell’uomo. Ma la nuova “trasformazione che ci avvolge” porta in se una inevitabile fascinazione , nuove lusinghe rispetto a cui è difficile il necessario distacco critico, e anche Caronia, orfano volontario di qualsivoglia passata utopia, non può non subirne, in una qualche misura, alcuni effetti. In uno scritto in memoria di Enrico Livraghi del 20109  ricorda: “Capivo che lui mi etichettava spietatamente ma con una certa tolleranza tra gli ‘antropologi ottimisti del cyberspazio’ (come scrisse nel catalogo di quella rassegna) – e riluttavo allora, mentre capii poi che nell’essenziale aveva ragione.” E in effetti come si può mantenere una qualche sorta di equilibrio tra i “cantori delle meraviglie” e i “lamentatori degli obbrobri” senza coltivare un abbozzo, un’idea di progetto, un embrione di una nuova utopia? Se l’ibridazione tra l’uomo e la macchina non può essere solo minaccia né solo promessa e quel che se ne può concludere è “Tutto sta a vedere qual è il prezzo.”,10 allora non possiamo non chiederci se questo prezzo non riguardi in definitiva quello di una nuova utopia. La tentazione, a ben vedere, ci sta tutta. Se sull’onda di un movimento, la cui ritirata politica apriva nuovi spazi, di riflessioni, di creatività e di pratiche diverse, era possibile sbarazzarci, senza troppi rimpianti, di utopie viste come complici dei fallimenti del passato, nella nuova fase storica che si apriva non più su un presunto riflusso politico ma in una desertificazione del movimento che avrebbe caratterizzato tutto il nuovo decennio degli anni ’80, l’utopia allora poteva anche sembrare in definitiva il male minore. Se non c’è stato nessun ripensamento, da parte di Caronia, sulla necessità di ricostruzione di un’utopia, per contro non essendoci più, almeno non più diffusi, visibili, quei “comportamenti diversi, alternativi, fuori dalla logica, dalla morale. (…) gli unici che possono essere sovversivi” e che in quanto tali “sono fondamentalmente comportamenti contro l’utopia”11 è inevitabile che tra le pieghe del suo discorso, in un varco lasciato volutamente aperto nella sospensiva del “che fare”,  possa insinuarsi comunque una siffatta  tentazione. Questo varco, in un discorso teorico che vuole affrontare l’impatto che il processo di virtualizzazione ha nella socialità dell’homo sapiens, porta inevitabilmente alla domanda sul costo dell’innovazione. Cioè si da per scontato che il guadagno ci sia e che non venga inficiato da un costo troppo alto sembrerebbe l’unica reale posta in gioco. Da qui alla necessità di una rinnovata utopia che indirizzi verso la strada giusta da percorrere verso l’inarrestabile evoluzione, il passo è breve. Ma è un passo che Caronia non segue, a costo di rimanere invischiato in quel facile, indefinito cyberentusiasmo, cerca ancora; si schiera ma non si allea, prende posizione ma rifiuta di farsi incasellare, in una sorta di autoimposto disagio e conseguente disorientamento simile a quello che si potrebbe provare all’interno di quel negozio della pecora di Alice. Nell’immagine tanto amata da Caronia stesso. In realtà per Caronia è chiaro che la vecchia utopia è legata “a una biologia, a una concezione della storia della storia e del suo senso, a una visione lineare del tempo che non ci appartengono più” e che noi ci troviamo oggi “nell’era della Programmazione Biologica (…) svincolati ormai dalla vecchia forma proto-umana, (…) a cui il tempo non appare più né (come) una retta né come una circonferenza, ma una spirale cilindrica tridimensionale”.12 In questa nuova era “il rovesciamento di senso del processo di artificializzazione attraverso la sua accelerazione”13 pone le basi per il superamento della distanza tra il naturale e l’artificiale inglobando quest’ultimo dentro noi stessi e realizzando così l’annichilimento della distanza tra noi e il mondo e il conseguente avvento dell’utopia realizzata. Un’utopia totale che vede il capitalismo far trionfare su qualunque forma di opposizione o resistenza, i suoi sogni/incubi più estremi. Il possibile si concreta come sogno del possibile capitalista. Non c’è nessuna indicazione nell’opera di Caronia che sembri alludere a una possibile contro-utopia. Ci sono spazi lasciati vuoti, echi di una possibile futura, non meglio definita, liberazione, ma nessun, neanche vago, progetto di un’utopia di segno diverso, opposta a quella del capitale. Esula dai compiti e dagli obiettivi di questo breve scritto indagare su quello che potremmo chiamare, anche se in modo scorretto, il “propositivo” nell’opera di Caronia (confidiamo che questo libro nel suo insieme possa considerarsi un primo approccio di lavoro in questa direzione). Rimanendo qui concentrati sulla posizione di Caronia nei riguardi dell’utopia, dobbiamo constatare due cose importanti: la prima è che persiste, diffusa tra i giovani e i meno giovani che hanno seguito il suo pensiero o che lo scoprono solo ora, l’idea che esso contenga una perorazione per una nuova utopia collettiva che prenda il posto di quelle vecchie, obsolete; la seconda è che nell’ultimo anno di vita, Caronia ha concesso, suo malgrado, un chance a questa ipotesi. “PRATICARE L’UTOPIA, NON SOGNARLA” è stato l’ultimo slogan lanciato da Caronia, un’ultima incitazione, potremmo dire, ambiguamente utopica. Ambigua in quanto sollecita l’equivoco di una possibile, auspicabile creazione di utopie concrete. Uno slogan di cui è necessario qui raccontare la genesi per poter sciogliere l’equivoco. Questo titolo è servito nell’aprile del 2012 per presentare alla libreria Utopia di Milano la riedizione del libro Nei labirinti della fantascienza uscito la prima volta nel 1979 a cura del collettivo Un’ambigua utopia.14 Alla presentazione era collegata una mostra storica della rivista e per scegliere il titolo dell’iniziativa Caronia ne propone due diversi: DISTRUGGERE LA FANTASCIENZA o  PRATICARE L’UTOPIA, NON SOGNARLA. Il primo, che deriva dall’editoriale del n. 1 della rivista15 viene scartato perché troppo schiacciato su una prospettiva fantascientifica e considerato anacronistico in quanto rivolto a un genere oggi definitivamente concluso. Il secondo che alla fine viene scelto, rifà il verso al primo editoriale ma lo reindirizza non più sulla fantascienza ma sull’utopia. L’obiettivo della rivista nel dichiarare di voler distruggere la fantascienza era quello di voler “rompere questo involucro, questo contenitore che si chiama fantascienza, e dimostrare che ciò che contiene, ciò che c’è dentro, non è altro che quello che si trova fuori. (…) Se l’alternativa rivoluzionaria è ghettizzata nella fantascienza, è perché si può sognare e non praticare.” Nell’ultimo scritto sulla storia della rivista16 Caronia commenta così questo editoriale: “Pratica dell’obiettivo, pratica dell’utopia, sarà stata pure una formulazione rigida e ingenua, ma non li sentite gli echi e gli slogan del 77? Dei volantini dei circoli del proletariato giovanile? Non le vedete le assonanze con le pagine di A/traverso, le sintonie con le trasmissioni di Radio Alice?”.17 Di conseguenza il titolo “giusto” dell’iniziativa avrebbe dovuto mantenere il primo termine DISTRUGGERE sostituendo il secondo, la fantascienza, con L’UTOPIA.18 È ovvio che per Caronia, entrando nel collettivo di Un’ambigua utopia dopo un anno dalla sua nascita, quel vecchio slogan non potesse che essere rigido e ingenuo, ma era anche una esemplificazione formidabile per cogliere i frutti di quel fenomeno letterario ormai prossimo alla fine che era la fantascienza:

“Era evidente che la fantascienza non poteva sopravvivere, né nella sua forma ‘ottimista’ né in quella di ‘testimonianza’ della crisi, all’avvento della nuova fase del capitalismo iniziata negli anni ottanta. I generi della letteratura popolare sono, più degli altri, fenomeni storici contingenti, che nascono e muoiono in simbiosi con i processi sociali. La fantascienza è morta, quindi, nel momento in cui la società non riusciva più a ‘progettare il proprio futuro’; ma i suoi temi, le sue strategie narrative, le sue modalità discorsive stanno migrando già in questi anni nelle nuove produzioni della nuova industria culturale, nei nuovi generi che si preparano e già vivono nella narrativa, nel cinema, nei videogiochi, dalla fantasy, al noir.”19

Se a questo punto possiamo dire che tutto sommato è stato relativamente facile un lavoro demolitorio del ruolo consolatorio della fantascienza di ben altro tenore è stato quello nei confronti dell’utopia. Che questa possa essere ambigua, non è cosa difficile da accettare, ma che si possa addirittura farne a meno è ben arduo da accettare non solo da parte dei più utopici sognatori, ma anche da chiunque consideri irrinunciabile la necessità di un pur minimo senso del futuro. La fine del futuro, che è la fine della nostra era, rende obsoleta un tipo di letteratura caratteristico del capitalismo industriale come la fantascienza, ma cosa ben più gravida di conseguenze, minando la consistenza di ogni utopia congela il nostro agire collettivo. Un’inerzia da cui tentare di uscire pensando davvero di poter proporre una pratica dell’utopia, è uguale al tentativo del barone di Münchhausen di uscire dalla palude tirandosi su per il codino. Che questo passaggio verso il nuovo non fosse una cosa semplice e fosse tenuta volutamente in sospensione ce lo dimostra l’alternanza degli autori a cui Caronia fa riferimento tra gli anni ’80 e ’90. Se nel campo della fantascienza l’interesse per un’autrice come Ursula K. LeGuin  era già superato, quando ancora la rivista di un’ambigua utopia (il cui nome è debitore di un’opera della scrittrice stessa20) era ancora viva, scrittori come Samuel Delany e soprattutto J. G. Ballard occuperanno una posizione crescente e privilegiata, un altro autore, P. K. Dick, scomodissima figura antitecnologica e intrisa di fervore mistico filosofico, acquisterà man mano uno spazio e un interesse vieppiù fagocitanti. Così come nel campo più prettamente teorico, a fianco di un Baudrillard, non estraneo a una storia “marxista” ne abbiamo uno come Foucault affatto estraneo. Foucault e Dick saranno gli elementi perturbatori di quegli anni. Di entrambi Caronia aveva inizialmente una visione limitata ad alcuni punti, importanti ma circoscritti. Il potere e la società disciplinare per Foucault, il carattere epistemologico e ontologico delle trame narrative per Dick. Senza soluzione di continuità l’interesse nei loro confronti crescerà man mano fino a convergere in un articolo per il trentennale della scomparsa di Dick.21  Dick e Foucault non saranno solo gli strumenti, da affinare e perfezionare, per affrontare quello che ormai sembra emergere dietro la figura del cyborg, un salto antropologico come uscita auspicabile dal neolitico “oggi tutta l’era neolitica dovrebbe forse apparire come una gigantesca parentesi da abbandonare al più presto, un esperimento che ha avuto le sue luci e le sue ombre, ma la cui continuazione avrebbe costi insostenibili.”22 ma saranno fondamentalmente l’antidoto a che questa auspicata uscita non si trasformi in un’ennesima consolatoria forma di nuova utopia. Sempre più l’incantesimo “dei cyborg elettronici e dei corpi disseminati nell’era digitale”23 dovrà passare sotto il vaglio della “spada da samurai” di Foucault24 e del D.I. (distruttore d’incantesimi) di Dick.25 Un conto è dichiarare la necessità di uscita dal neolitico e un altro è pensare di poterla progettare. Caronia percepisce la nuova trappola utopica e scarta l’ostacolo invece di saltarlo. Sceglie un altro percorso dal risultato incerto, imprevedibile. Se ha ragione Foucault nell’identificare “la nascita dell’’uomo’ in senso moderno con quello dell’antropologia, con le trasformazioni dell’episteme che hanno reso possibile fare dell’uomo un oggetto di indagine” ciò fa si che di conseguenza “mutando le ‘disposizioni fondamentali del sapere’, l’uomo (inteso in questo senso ‘epistemico’) potrebbe scomparire come è nato.” Allora “questo e non altro, potremmo dire, è il problema del postumano oggi.”26  Ecco allora che il postumano, così come si prospetta nel nuovo millennio per Caronia non poteva presentarsi come nuovo cavallo di Troia per l’utopia così come forse  aveva rischiato di essere il cyborg tra gli anni  1985 e 1996, tra la pubblicazione del libro sul Cyborg e quello sul Corpo virtuale.  Sarà sempre più chiaro che “se l’attrito fra cervello paleolitico e società neolitica era inquietante ma ancora tollerabile, l’abisso fra lo stesso cervello e la società industriale matura e onnipervasiva (il capitalismo cognitivo) è potenzialmente distruttivo.” E allora inevitabile è

“l’ipotesi che la presenza forte e la centralità del mondo materiale creasse quella vischiosità fra mondo ed esperienza che si esprimeva nella percezione del tempo come durata; e che il dilagare della dimensione immateriale (relazionale nel senso di sganciata dalla materia e dal corpo) sia una delle condizioni, forse la più importante, di questo processo di estrema frammentazione e distruzione del tempo. La conseguenza sarebbe che solo un nuovo ancoraggio alla materia e al corpo potrebbe costruire un antidoto efficace all’estremo spaesamento e al nostro naufragare in un tempo sempre più microbico e parcellare.”27

 Foucault e Dick stanno procedendo a passi da gigante. Caronia non rinnega l’interesse e la necessità di affrontare il nuovo e di accettare la sfida di un  mondo in cui reale e immaginario sempre più sembrano fondersi; semplicemente, in una radicale scelta anti-utopica, ancora il proprio interesse a un presente che possa contenere in sé il futuro come possibilità e non come programma. La cura di sé che Foucault studia negli antichi greci e i primi cristiani e che Dick analizza nei suoi personaggi, falliti ma disperatamente vivi, è la risorsa a cui Caronia si aggrappa con tutte le sue residue forze per traghettarsi fuori dal pantano della palude del soggetto, il vero volto dell’utopia occidentale, infine. Ed è da qui che Caronia ha ricominciato e ci induce a ricominciare a lavorare. Una nuova pratica priva di qualunque utopia e, per quanto alieno dalla nostra storia possa apparirci, che contenga invece una nuova forma di spiritualità che, come scrive Foucault, abbia dentro di se quell’”insieme di quelle ricerche, di quelle pratiche e di quelle esperienze che (…) per il soggetto, per il suo stesso essere di soggetto, rappresentino, il prezzo da pagare per avere accesso alla verità”28, verità che non potrà che essere sempre, dickianamente, una penultima verità.

Nota 1: Titolo dell’iniziativa tenutasi alla libreria Utopia di Milano il 22 aprile 2012 per la presentazione del libro Nei labirinti della fantascienza, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2012.
Nota 2: La distopia o antiutopia è la componente utopica in negativo con cui il genere letterario della fantascienza ha manifestato in modo prevalente la propria visione del futuro.
Nota 3: Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti. Muzzio Editore, Padova 1996, p. 58.
Nota 4: Per una storia di Un’ambigua utopia: Antonio Caronia, Giuliano Spagnul, (a cura di), Un’ambigua utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni 70, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2010, vol. II Appendice.
Nota 5: Uscire dal neolitico è il titolo dell’ultimo capito del libro di A. Caronia, Il corpo virtuale, cit.
Nota 6: Antonio Caronia, Giuliano Spagnul, (a cura di), Un’ambigua utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni 70, cit.  vol. II.
Nota 7: A. Caronia, Il cyborg, Theoria, Roma, 1985, p. 8. Rivisto e ampliato questo testo è stato riedito nel 2001 per le edizioni Shake, e ancora per le stesse edizioni nel 2008 con l’aggiunta di un poscritto.
Nota 8: Ibidem
Nota 9: A. Caronia, Per Enrico Livraghi. Da Zuppa d’anatra a Matrix. http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2015/06/antonio-caronia-per-enrico-livraghi-da.html Enrico Livraghi è stato tra i fondatori del cineclub Obraz di Milano.
Nota 10: A. Caronia, Il cyborg, cit. p. 118
Nota 11: A. Caronia, G. Spagnul, (a cura di), Un’ambigua utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni 70, cit.  vol. II.
Nota 12: A. Caronia, Il corpo virtuale, cit. p. 58.
Nota 13: Ivi, p. 88.
Nota 14: A. Caronia, G. Spagnul, Nei labirinti della fantascienza, cit.
Nota 15: A. Caronia, G. Spagnul, (a cura), Un’ambigua utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni 70, cit.  vol. I.
Nota 16: A. Caronia,  Quando i marziani invadevano Milano, http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2014/12/antonio-caronia-quando-i-marziani.html
Nota 17: ibidem.
Nota 18: Un titolo per altro improponibile per una manifestazione da tenere in una libreria che si chiama proprio Utopia.
Nota 19: A. Caronia, La SF è morta, viva la SF. In “Hamelin”  22/2009 https://www.academia.edu/298069/La_fantascienza_%C3%A8_morta_viva_la_fs_
Nota 20: Ursula K. LeGuin, I reietti dell’altro pianeta (1974), Editrice Nord, Milano, 1990.
Nota 21: A. Caronia, Un filosofo in veste di romanziere, Il Manifesto 1 marzo 2012.   http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2016/01/antonio-caronia-un-filosofo-in-veste-di.html

Nota 22: A. Caronia, Il corpo virtuale, cit. p. 177.
Nota 23: Ivi, p. 178.
Nota 24: Nell’efficace metafora usata da Antonio Caronia nel seminario su Foucault tenutosi alla NABA di Milano nel 2011-2012.   https://archive.org/details/MichelFoucault_PerUnaGenealogiaDelSoggetto
Nota 25: Philip K. Dick, La città sostituita (1957), Fanucci, Roma 2011.
Nota 26: A. Caronia, Transumano, troppo postumano,  “S&F” 1/2009  https://www.academia.edu/288184/Transumano_Troppo_Postumano
Nota 27: A. Caronia, Cogli l’attimo! (Se ci riesci), “L’Unità” 10 giugno 2004  https://www.academia.edu/305223/Cogli_lattimo_se_ci_riesci_
Nota 28: Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto (2001),  Feltrinelli editore, Milano 2003, p. 17.        



giovedì 1 dicembre 2016

Nuvole marziane di Antonio Caronia: La spada del samurai





Nota 1: Paul Veyne, Foucault. Il pensiero e l'uomo. Garzanti, Milano 2010.

Testo dal seminario MICHEL FOUCAULT. PER UNA GENEALOGIA DEL SOGGETTO --lezione 8^ (48')  https://archive.org/details/MichelFoucault_PerUnaGenealogiaDelSoggetto 


martedì 11 ottobre 2016

Antonio Caronia: La fantascienza fra letteratura e industria editoriale

Disegno di copertina di Michelangelo Miani

Variazioni Cosmiche. Catalogo dell’omonima rassegna svoltasi a Vimercate e Mezzago (Milano) dal 14 al 30 ottobre 1988. Edizioni Nord (in collaborazione con i comuni di Vimercate e Mezzago).

Diversi anni fa lo scrittore di fantascienza Theodore Sturgeon (recentemente scomparso) fece un’osservazione che ebbe fortuna, almeno tra gli appassionati, tanto da essere citata in seguito come “legge di Sturgeon”. Rispondendo alle critiche ricorrenti verso questo tipo di narrativa, Sturgeon diceva: concordo con voi, una gran parte di quello che va sotto il nome di “fantascienza”  è spazzatura, diciamo pure il 95%; ma non c’è da scandalizzarsi, visto che il 95% di tutto quanto si produce oggi è spazzatura. Era un modo di staccare la fantascienza dal ghetto nel quale spesso la rinchiudono i pregiudizi dei profani e gli entusiasmi indiscriminati dei fans, per ricollegarla alla tradizione della normale letteratura, farne una provincia della narrativa tout court.                        
Nel 1975 un’altra scrittrice di fantascienza, Ursula Le Guin, si trovava a Melbourne, in Australia, per partecipare al convegno mondiale di fantascienza, un genere di incontri che essa non è solita frequentare. In quella occasione essa citò la legge di Sturgeon, lamentando che fosse stata usata per troppo tempo come scusa, in modo troppo difensivo. “Io proporrei” disse “di aspettare di citarla per un po’, per lo meno quando la usiamo in modo cinico e rassegnato. Vorrei che non fossimo rassegnati, ma ribelli; non cinici, ma critici, intransigenti e idealisti. Vorrei che dicessimo: il 95% della fantascienza è porcheria, bene, liberiamoci di quella roba! Apriamo la finestra e liberiamoci di questa immondizia! Abbiamo la fantascienza, la forma più flessibile, più adattabile, strampalata, la più ricca di immagini e di possibilità che la narrativa abbia mai conseguito, e lasceremo che la usino per costruire pistole a raggi di plastica che si rompono quando qualcuno ci gioca, e pranzi da consumare davanti alla TV, preimpacchettati, precucinati, predigeriti, indigeribili, insipidi, ed enormi palloni di gomma gonfi, che non contengono altro che aria calda? Ah, no, diamine, dico io. Dobbiamo smetterla di rintanarci a giocare da soli, come ragazzini continuamente rimbrottati. Quando si recensisce un romanzo di fantascienza, su una fanzine o su una rivista letteraria, si dovrebbe paragonarlo al resto della letteratura contemporanea come qualunque altro libro, e disporlo tra gli altri in base ai suoi meriti particolari. (…) Quando scrive un libro di fantascienza, lo scrittore dovrebbe essere veramente consapevole di trovarsi in una posizione invidiabile e straordinaria: di essere l’erede della più duttile, libera e giovane di tutte le tradizioni letterarie”. (1)   Ursula Le Guin è una scrittrice un po’ particolare, e non può essere forse presa come rappresentante tipica della comunità degli scrittori di fantascienza: d’altra parte può essere che la particolare occasione le abbia preso la mano, caricando un po’ i toni del suo discorso. In tutti i casi il problema che sollevava in quella circostanza era e rimane fondamentale: come dobbiamo giudicare la letteratura di fantascienza, con quali criteri? Con l’occhio distratto e l’atteggiamento di sufficienza che si riserva al racconto letto frettolosamente su una rivista, alla narrativa “di consumo”? Oppure con l’attenzione che merita ”la più duttile, libera e giovane di tutte le tradizioni letterarie”?         Tradizione letteraria o industria editoriale. La questione è stata tranciata, con un’accetta forse non molto affilata ma vibrata con mano sicura, da Oreste del Buono nell’introduzione a un’opera di Darko Suvin, Le metamorfosi della fantascienza.(2)                                                                            
Suvin nell’opera in questione propone una vera e propria interessante teoria della fantascienza come letteratura dalle potenzialità “cognitive” (capace cioè, attraverso l’emozione, di modificare o strutturare la nostra conoscenza, la nostra visione del mondo): e milita naturalmente a favore della tesi della tradizione letteraria, sostenendo che la fantascienza è un genere abbastanza antico, che comprende al suo interno anche i romanzi utopici. Del Buono commenta: “Suvin sta per un’origine nobile della fantascienza. Ma, dispiace dirlo, la fantascienza, come tutti i sottogeneri a larga diffusione partoriti dall’industria editoriale, ha un’origine, se non ignobile, rozza”.(3) Sul terreno dei fatti, per esempio l’origine del nome “fantascienza”, del Buono viaggia sicuro. Non c’è dubbio che i termini inglesi scienti-fiction prima e science fiction poi (quest’ultimo prevalse) furono coniati da Hugo Gernsback, lussemburghese trapiantato in America, radiotecnico, inventore e appassionato lettore di Poe, Verne e Wells, fondatore nel 1926 della prima rivista popolare completamente dedicata alla fantascienza, “Amazing Stories”. Prima di Gernsback, la “fantascienza” (che allora non aveva ancora un nome) compariva, mescolata ai racconti cosiddetti “gotici” del soprannaturale, dell’orrore, del fantastico in genere, su altre riviste di narrativa popolare: “Argosy”, “Werd Tales”. Anche Gernsback pubblicava sulla sua rivista di divulgazione “Science and Invention” racconti di narrativa scientifica, cioè, come lui stesso li definiva, “affascinanti avventure mescolate a fatti scientifici e a visioni profetiche”. L’importanza di questo personaggio fu proprio quella di aver compreso che l’interesse del pubblico popolare verso questo nuovo genere di narrativa richiedeva progetti editoriali dedicati specificatamente e completamente ad esso. Cercheremo invano in questa “fantascienza delle origini” delle qualità letterarie intese in senso tradizionale. Da questo punto di vista del Buono (e con lui altri critici) ha ragione da vendere. Il lettore di queste storie di scienza fantastica, narrativa pseudo-scientifica o “super-scienza” (erano alcune delle altre etichette che circolavano sulle riviste che fra gli anni Venti e Trenta si aggiunsero a “Amazing Stories”) era in genere circondato dal discredito generale. Isaac Asimov ha lasciato una interessante e non sospetta testimonianza di questo fatto: “Alle scuole superiori mi sentii ancora più solo come lettore di fantascienza.” Scrive “continuavo a non trovare alcun compagno che condividesse i miei interessi, naturalmente, ma almeno alla media inferiore avevo suscitato una certa attenzione raccontando agli altri le storie che leggevo. Ma questo non pareva più possibile nell’atmosfera più adulta e dignitosa di una scuola superiore (…). Non era solo dovuto al fatto che la gente non leggeva fantascienza. Una persona poteva non leggere i gialli o i western, non per questo si metteva a ridere di coloro che li leggevano. Se uno invece leggeva fantascienza, gli altri si mettevano a ridere. ‘Leggi davvero quelle storie insensate?’ era la domanda di rito. La fantascienza era letteratura di evasione. Era la quintessenza in fatto di evasione, più di qualsiasi altro genere di narrativa popolare perché ti faceva evadere addirittura da questo mondo. E pareva che l’evasione fosse una cosa molto spregevole”.(4)                      
I critici accademici come Suvin, sono molto severi verso questo tipo di fantascienza dei pulp magazines (così erano chiamate le riviste popolari degli anni Venti e Trenta, a causa della carta scadente che impiegavano): eppure, a ben guardare, la questione della tradizione letteraria si pone anche per questo tipo di produzione. Quando Gernsback, presentando la nuova rivista “Amazing Stories”, invoca come numi tutelari Poe, Verne e Wells, non barava di certo: a prescindere dalla valutazione delle singole opere, la fantascienza delle origini nelle sue varie sfumature (quella avventurosa di “Argosy”, quella orrorifica/soprannaturale di “Weird Tales”, quella scientifico/tecnologica di Gernsback) riprende tendenze e filoni già presenti nella letteratura “alta”, ufficiale, dell’Ottocento. Per quanto riguarda la cultura americana, critici come Bruce Franklin, Ketterer, la stessa Le Guin e in Italia Carlo Pagetti hanno studiato il legame tra la fantascienza e la tradizione culturale americana del conflitto tra macchina e natura; sia i paesaggi utopici e antiutopici che gli alieni e i mostri della fantascienza affondano le loro radici in altrettanti temi e immagini presenti fin dalle origini nella cultura americana. Resta certo da spiegare, per dirla con Pagetti, “la divaricazione della narrativa fantascientifica rispetto alla linea maggiore del romanzo americano nel passaggio dal vecchio al nuovo secolo”.(5) Le osservazioni principali da fare a questo proposito sono due, una relativa all’immaginario collettivo, l’altra all’industria editoriale.                                    
La fantascienza dei pulp (come del resto, in una certa misura, quella del decennio successivo) corrispondeva a un sentimento popolare di entusiasmo e di fiducia verso la scienza e la tecnica. Il ritmo prodigioso delle invenzioni negli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi del nostro avevano convinto la gente che questa fioritura sarebbe andata avanti all’infinito, che ogni problema concepibile sarebbe stato risolto, prima o poi, grazie a una nuova invenzione o a una nuova scoperta. Non è affatto un caso che l’inventore editoriale della fantascienza moderna, Gernsback, fosse egli stesso un inventore e un imprenditore (perché le due figure spesso coincidevano), non è un caso che la fantascienza abbia attecchito fra gli strati più giovani di quell’ambiente di consumatori di stampa tecnica, soprattutto nel campo dell’elettricità e delle telecomunicazioni. Un immaginario tecnologico, come nota anche Pagetti, era già presente nella letteratura americana dell’Ottocento: ma in questo caso “l’avanzata della tecnologia e la sua progressiva applicazione al campo dell’industria (avevano riformulato) lo spazio dell’utopia, introducendo elementi sempre più minacciosi e la disumanità di un diverso che sostituisce al ‘selvaggio’ la Macchina, silenziosa e violenta come gli automi della ‘Torre campanaria’ di Melville e del ‘Signore di Moxon’ di Bierce”.(6) Questa coscienza critica, questo acuto sentimento dei limiti dei saperi umani (così presente, per esempio, nell’ultimo Twain) mancano del tutto nella fantascienza popolare fino agli anni Cinquanta: i superuomini e le superscienze di queste space operas mostrano in modo sorprendentemente fresco e ingenuo i meccanismi proiettivi che invischiavano autori e lettori. Il secondo elemento che rende così importante la fantascienza delle origini è invece di natura editoriale: il campo della fantascienza infatti (come peraltro quello del giallo) è uno dei banchi di prova della nascente industria culturale. Non ci troviamo infatti di fronte a una serie di autori che concepiscono e scrivono le loro opere nel chiuso dei loro studi e poi, in modo spontaneo, si affidano alla risposta del pubblico: siamo di fronte a una vera e propria industria che pianifica tutto il ciclo produttivo, dall’ideazione delle opere fino alla stampa, in funzione di obiettivi economici, che si basa – magari ancora rozzamente ma efficacemente – su uno studio del mercato, in questo caso dei bisogni di evasione di settori giovanili abbastanza bene identificati, e solo in questo àmbito fa intervenire i veri e propri elementi “creativi”. Si può dire che la fantascienza anticipa gli elementi che si sono dispiegati più compiutamente in tutto il processo editoriale in anni più recenti: importanza centrale della figura dell’editor (cioè del direttore editoriale), diffusione di un vero e proprio lavoro di redazione, in modo che il testo nasca dall’interazione fra l’autore e l’editor.                              
È un processo di creazione in qualche modo collettivo, in cui le singole opere sono legate tra loro da una rete di complicità, di rimandi: le figure e le immagini della fantascienza (l’alieno, il robot, il viaggio nello spazio e nel tempo, lo spazio esterno, i nuovi mondi) si strutturano per stratificazioni successive, con contributi di vari autori che si sommano all’intuizione di chi per primo ha elaborato un personaggio o introdotto una convenzione. L’opera collettiva, insomma, è più importante del singolo autore. Questo non vuol dire che il ruolo dell’individuo è annullato, che la figura dell’autore (tradizionalmente inteso) scompare. Le grandi individualità non vengono cancellate, e l’industria editoriale non può impedire l’emergere di veri autori, magari riconosciuti e apprezzati in quanto tali con un certo ritardo. È il caso del più grande talento degli anni Venti e Trenta, Howard P. Lovecraft, che coniugò il tradizionale racconto del soprannaturale orrorifico con la nuova fantascienza, creando un originalissimo universo di mostruose divinità  primigenie, che hanno una volta abitato la terra, e ora si sono ritirate, per comparire solo sporadicamente e preparare forse un ritorno tra noi.      L’universo alieno degli “antichi dei” che irrompe nella vita sonnacchiosa di un New England odiato e amato è l’espressione di un materialismo radicale che rifiuta ogni credenza mistica o religiosa. La scrittura di Lovecraft è una delle voci più incisive dell’angoscia dell’uomo moderno di fronte alle sue stesse creazioni.                                                                                                                                           Ma la fantascienza ha già prodotto la sua storia e i suoi miti interni. Fra questi spicca quello dell’”età dell’oro”, gli anni Quaranta che videro, si dice, la prima rivoluzione di questa narrativa. Nel 1937 arrivò alla direzione di “Astounding Stories” (un’altra rivista pulp nata nel 1930) John W. Campbell, un’energica figura di editor che diede un’impronta a tutta la fantascienza del decennio successivo. Sentiamo un autorevole storico della fantascienza: “Campbell considerava la scienza il soggetto principale, ma vi aggiunse un altro polo di interesse: la previsione del futuro. Egli riteneva che il ruolo della fantascienza dovesse essere quello di predire la civiltà del domani in modo plausibile, realistico e, naturalmente, scientifico”.(7) Campbell discuteva a lungo con suoi autori, li esortava alla coerenza, consigliava di focalizzare ogni racconto su una singola idea e di prestare attenzione alle conseguenze dell’uso delle novità introdotte (che quasi sempre consistevano in marchingegni). In effetti la fantascienza degli anni Quaranta presenta opere meno superficiali e raffazzonate di quelle dei decenni precedenti. Autori come Asimov, Heinlein, van Vogt, Sturgeon, Simak, muovono i loro primi passi o si consolidano con Campbell, e sono tutti nomi che si sono dimostrati capaci di resistere ai successi di una singola stagione, rimanendo attivi e capaci di produrre opere interessanti fino ad oggi. Ma dal punto di vista dell’atteggiamento di fronte alla tecnica e al futuro, le cose non cambiano radicalmente rispetto ai decenni  precedenti. È l’ottimismo tecnologico, la fiducia nelle capacità dell’uomo a risolvere comunque i propri problemi, che dominano la scena, certo in modo più sofisticato rispetto al primo periodo dei pulp. La storia futura di Heinlein, i robot di Asimov, i superuomini di van Vogt esprimono ancora un atteggiamento fondamentalmente positivistico, una visione della scienza che ha più a che fare con le sue vaste potenzialità applicative che con i veri problemi conoscitivi che essa solleva.                                                       
La fantascienza di questi anni rimane, insomma, ancora separata dai fermenti culturali più profondi che nello stesso periodo attraversano la letteratura, le arti, e la scienza stessa. Un vero punto di svolta (e non solo nella fantascienza, naturalmente, ma in tutta la cultura e l’immaginario collettivo del nostro secolo) è rappresentato dall’esplosione delle due bombe atomiche, nell’agosto del 1945, su Hiroshima e Nagasaki. “Gli scrittori e i lettori di fantascienza” osserva Aldiss “stavano assimilando le implicazioni che si celavano dietro la bomba nucleare, i suoi illimitati poteri di grandezza e di distruzione. Fu un processo doloroso: le vecchie fantasie del potere  affioravano alla realtà. Molti racconti narravano la distruzione della Terra, la condanna della civiltà, la morte dell’umanità e i terribili effetti delle radiazioni, che causavano la mutazione o una morte insidiosa”.(8) Meno di dieci anni dopo, nel 1957, l’entrata in orbita dello Sputnik toglieva altro terreno alla fantascienza come profezia. L’era nucleare e l’era spaziale concretizzavano un inquietante tendenza della società tardo-industriale a tradurre in realtà le fantasie più sfrenate, e a colorarle, mentre le realizzava, di sfumature sinistre. Nella fantascienza ci fu chi seguitò semplicemente a coltivare l’avventura interplanetaria, ma ci fu anche chi comprese che bisognava battere strade nuove: rivolgersi con occhi critici alla realtà contemporanea, rileggere gli eterni problemi dell’umanità in chiavi comprensibili per l’oggi, recuperare quella che Aldiss ha chiamato “la disperazione naturale e appropriata che ha sempre caratterizzato gran parte della letteratura”.(9) La social science fiction, la fantascienza sociologica che fiorì negli anni Cinquanta attorno alla rivista “Galaxy” diretta da Horace L. Gold, segnò l’inizio di un riavvicinamento più cosciente della fantascienza alle sue radici letterarie. Autori come Robert Sheckley, Frederik Pohl e Cyril Kornbluth, Damon Knight  batterono la strada di massa che, per quanto fosse in ritardo sulla realtà, riprendeva un filone ricco della narrativa fantastica europea, quello dell’anti-utopia, dell’utopia a rovescio, in cui la descrizione grottesca di una società futura rimanda a un’analisi implicita dei mali del nostro presente. A un filone del genere si possono far risalire gli inizi della carriera di Kurt Vonnegut, e almeno una parte della produzione di Ray Bradbury, due autori che uscirono presto dall’ambito della fantascienza per approdare alla letteratura tout court. Non si può negare del resto che all’origine dell’interesse per l’anti-utopia ci sia un libro come 1984 di Goerge Orwell, pubblicato nel 1949. Accanto a “Galaxy” va ricordata un’altra rivista, “The Magazin of Fantasy & Science Fiction”, il cui direttore Anthony Boucher aveva  un’attenzione particolare per l’aspetto stilistico delle opere di fantascienza: fra gli autori incoraggiati da Boucher spicca il nome di Richard Matheson, che sarà attivo anche come sceneggiatore cinematografico.                                                                 
Gli anni Sessanta e Settanta registrano nella fantascienza un eco dei movimenti sociali politici e culturali di quegli anni. La fantascienza ha ormai un mercato più o meno stabile, il suo pubblico non sono più solo gli adolescenti affamati di avventura degli anni Venti e Trenta; le riviste globalmente sono in calo di tirature e di influenza, e al loro posto sono comparse le collane di libri, rilegati e paperback, edite da case specializzate o da grandi editori. Il clima di entusiasmo e di unanimismo di prima della guerra lascia il campo a discussioni e polemiche. L’attività della rivista inglese “New Worlds” diretta da Moorcock, il fenomeno americano della new wawe con il suo tentativo di rinnovamento tematico e stilistico, soprattutto l’affermarsi di una “fantascienza delle donne” che rivendica il ruolo fin qui sommerso delle autrici e rilancia tematiche più apertamente femministe o un punto di vista femminile (Joanna Russ, Vonda McIntyre, Alice Sheldon, più nota come James Tiptree): sono tutti fenomeni che disegnano una nuova fase della fantascienza, una sua maggiore apertura alla realtà, una capacità di confrontarsi con i problemi presenti nella vita e nella cultura, il colonialismo, il razzismo, l’ambiente, il militarismo. In modi diversi e anche con esiti discutibili, autori formatisi vari decenni fa, come Asimov, Heinlein o Arthur C. Clarke hanno dimostrato anche negli ultimi anni di saper aderire a questo nuovo clima. Ma soprattutto, negli anni Sessanta e Settanta emergono delle vere e proprie figure di autori, scrittori dotati di una immediata riconoscibilità tematica e stilistica, con una formazione culturale ampia e la capacità più propriamente letteraria di tradurre nella scrittura il proprio mondo e la propria riflessione interiore: capaci anche di dare forma personale ai grandi temi emergenti della nostra epoca. Tra loro ci sono Thomas Disch, cronista della banalizzazione della vita quotidiana e della dissoluzione del significato; Samuel R. Delany, interprete raffinato e barocco dell’esplosione dell’io, creatore di personaggi e paesaggi frammentati e mutevoli, sempre alla ricerca di una nuova logica capace di cucire almeno in parte questi frammenti: Alice Sheldon (che si è tolta la vita l’anno scorso), nella sua opera ha disegnato un percorso che dall’esame della condizione femminile arrivava a porsi il problema della vita umana come dolore. In Europa bisogna parlare almeno dell’inglese James Ballard e del polacco Stanislav Lem. Quest’ultimo ha dimostrato di saper rinnovare sia la tradizione del “racconto filosofico” di derivazione settecentesca, sia la riflessione sui limiti e le potenzialità della tecnica.                                                                                                                                         
Quanto a Ballard, adesso che la pubblicazione dell’Impero del sole lo ha fatto conoscere a un pubblico più vasto, non si può che raccomandare la lettura dei suoi romanzi e racconti precedenti, che designano uno dei più affascinanti ritratti dell’uomo post-nucleare, illuminato (come appunto nell’Impero del sole) dalla luce accecante di Hiroshima, e perso da quel momento in poi in un labirinto di pulsioni e regressioni.                                                                                                           Ma se volessimo esemplificare i risultati più maturi di cui è capace la fantascienza, non sapremmo indicare nomi più adatti di quelli di Ursula Le Guin e Philip Dick. Nessuno come la scrittrice dell’Oregon ha insistito sulla responsabilità morale dell’individuo, sulla necessità del confronto con l’Altro in tutte le sue forme, per scoprire quel tanto di noi che nell’Altro si ritrova ma anche per rispettare ciò che in esso rimane irriducibilmente diverso. La mano sinistra delle tenebre costituisce l’esempio migliore di questa tematica sul terreno del sesso, come I reietti dell’altro pianeta lo è sul terreno della fantascienza politica.                                                                                                              
Se Ursula Le Guin rappresenta il ricongiungimento alla tradizione letteraria nella sua forma più consapevole, anche sul piano dello stile, Philip K. Dick (scomparso nel 1982) dimostra che la grande letteratura può nascere anche dall’interno della cultura di massa, se chi la pratica è capace di mettere in gioco tutta la sua sensibilità, anche al di fuori di una formazione tradizionale. Come nessun altro nella fantascienza e come pochi fuori di essa, Dick ha saputo dare forma a uno degli interrogativi più brucianti e fondamentali della società post-industriale: come si può penetrare la realtà, che possibilità rimane di attribuirle un senso nell’epoca della Grande Macchina, dell’esplosione delle tecnologie riproduttrici e produttrici di realtà. La svastica sul sole, Noi Marziani, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Ubik, Episodio temporale, Valis, sono fra le tappe maggiori del suo percorso, e rappresentano tutte, in vario modo, delle lucidissime testimonianze della condizione umana nelle rovine del mondo moderno.

Nota 1: U. Le Guin, Il linguaggio della notte. Saggi di fantasy e fantascienza, Editori Riuniti, Roma, 1986, pp.217/218.
Nota 2: D. Suvin, Le metamorfosi della fantascienza. Poetica e storia di un genere letterario, Il Mulino, Bologna, 1985.
Nota 3: op. cit., p. VII
Nota 4: citato da O. del Buono, op. cit., p. XIV
Nota 5: Il laboratorio dei sogni. Fantascienza americana dell’Ottocento, a cura di C. Pagetti, Editori Riuniti, Roma, 1988, p. 21
Nota 6: op. cit., p. 11
Nota 7: J. Sadoul, Storia della fantascienza, Garzanti, Milano, 1975, p. 135
Nota 8: B. W. Aldiss, Un miliardo di anni. La storia della fantascienza dalle origini ad oggi, Delta, Milano 1974, p. 261

Nota 9: op. cit., p. 262

venerdì 9 settembre 2016

Cordwainer Smith. Il prezzo della felicità di Antonio Caronia


Secondo e ultimo articolo di Antonio Caronia sul tema dei mutanti nella fantascienza da Un'ambigu utopia anno III n°1 gennaio-febbraio 1979 (il precedente qui )
Nella allucinata e mitologica “storia futura” di Crdwainer Smith1 la mutazione ha un posto d’onore. Il mondo dei “Signori della strumentalità” si regge (è vero, come tanti altri mondi del futuro) sul lavoro e sulla presenza di macchine o esseri non umani. Anche nell’universo di Cordwainer Smith ci sono i robot, gli automi: ma si tratta in realtà di cyborg, o qualcosa di molto simile, cervelli di animali, talvolta di uomini (come in Giù nella Vecchia Terra2) in qualche modo riprogrammati e connessi poi meccanicamente a corpi artificiali. Ma l’invenzione più affascinante (e inquietante) del nostro autore sono gli underpeople (quasi-umani, mezzepersone, o omuncoli a seconda della traduzione italiana), discendenti delle vecchie razze di animali terrestri ma dotati, per mezzo di mutazioni genetiche programmate, di aspetto, intelligenza, emozioni umane, e provvisti spesso di capacità superiori a quelle dell’uomo. Non ci vuole molto a riconoscere presente, in questa sottopopolazione soggetta a restrizioni e discriminazioni di fronte alle quali impallidiscono quelle riservate alla gente di colore negli U.S.A., il problema della forza lavoro, che recentemente alcuni hanno voluto vedere come uno dei problemi più interessanti sottostanti alla letteratura di fantascienza e ad altre forme di letteratura popolare3: “Nessuna meraviglia che i quasi-umani fossero necessari. Per gli uomini sarebbe stato un lavoro pazzesco e snervante controllare anche con l’aiuto della più completa automazione, tutti i vari sub-impianti, e prevenire i guasti all’interno di ciascuno di essi e le interruzioni tra l’uno e l’altro”4. Naturalmente, come ogni forza-lavoro che si rispetti in una civiltà industriale, i quasi-umani sono una fonte di problemi e di angosce per coloro che li dominano: dice C-mell5 a Roderick MacBan: “(I terrestri) si stavano estinguendo, proprio perché erano troppo perfetti. Un modo per divenire migliori sarebbe stato di sterminare noi quasi-umani, ma non potevano eliminarci tutti. Ci sono troppi lavori complicati che gli automi non hanno la capacità di scvolgere”6.
    “Nessuna meraviglia”, perciò che gli umani abbiano ribrezzo per qualsiasi contatto fisico con i quasi umani, decretino che essi non possono venire protetti dalla legge umana, e che insomma “il genere umano, avendo risolto tutti i problemi fondamentali, non sia del tutto pronto a permettere che gli animali della Terra, indipendentemente da quanto essi possano essere cambiati, ottengano la piena uguaglianza con l’uomo”7. In effetti la posizione di Smith nei confronti dei suoi underpeople, per quanto è dato di ricavarla, nascosta com’è sotto la crosta stilistica8, non è così semplicistica. Smith sembra insieme attirato e respinto dall’idea dei quasi-umani, e non è certamente un caso che proprio C-mell sia protagonista di alcune delle più belle storie d’amore di questo ciclo.
    Sbaglieremmo però a ricavarne l’impressione che nell’opera di Smith ci sia una considerazione almeno in parte positiva della figura del mutante; se questo accade per i mutanti di origine animale, ben diversa è la questione per quanto riguarda i mutanti di origine umana. L’idea che le tendenze mutagene più diverse spingano l’uomo verso la regressione e la degenerazione è diffusa, qua e là, in tutti i suoi racconti e romanzi. Del resto lo stesso movimento della “Riscoperta dell’Uomo” non è forse la reazione ad una evoluzione regressiva dell’umanità? (“Stiamo uccidendo l’umanità con una blanda felicità senza speranza, proibendo la diffusione delle notizie, sopprimendo la religione e trasformando la storia in un segreto di Stato… L’umanità è priva ormai di vitalità, di forza, di energia. Si sta estinguendo”9, dice il Signore della Strumentalità Sto Odin).
    Ma più espliciti sono altri racconti, in cui l’idea della mutazione biologica e culturale è connessa alla colpa, alla punizione, all’espiazione e all’orrore. Uno di essi è il famosissimo Un pianeta chiamato Shayol10, esplicitamente ispirato all’inferno dantesco.
    Il pianeta Shayol (che in inglese è omofono della parola che indica l’inferno nelle lingue semitiche) è il luogo d’esilio di tutti coloro che si sono macchiati di colpe innominabili: qui i condannati vivranno, senza bisogno di cibo o bevande, sostentati, nutriti e completamente controllati da una forma di vita aliena e (a suo modo) intelligente, il dromozoo, che in forma di fascio luminoso penetra nel corpo umano provvedendo a svolgere tutte le funzioni organiche ma anche, fra terribili dolori, a far crescere nuove parti del corpo, specie di innesti dalla variegata mostruosità. Ma ancora più significativo è forse Il crimine e la gloria del comandante Suzdal11; Suzdal viene inviato proprio su Shayol perché nel corso del suo viaggio ha dovuto far fronte ad un pericolo inaspettato creando in modo del tutto incontrollato una razza di felini intelligenti; ma più che questo ci interessa qui la descrizione del pericolo. Questo è un pianeta, Arachosia, dove una mutazione misteriosa provoca il cancro in tutti gli esseri viventi femminili, comprese le donne dei coloni.
    Per poter sopravvivere una dottoressa, Astarte Kraus (“una donna brillante, spietata, implacabile nei confronti dell’universo che aveva tentato di distruggerla”), trasforma se stessa e tutte le donne ancora in vita in uomini.
    La riproduzione viene assicurata creando uteri artificiali nel corpo degli uomini e dei nuovi uomini-donne. Gli esseri di Arachosia si trasformano così in una società di “omosessuali barbuti, con labbra imbellettate, orecchini, acconciature raffinate… degli attaccabrighe che mescolavano gli amori all’assassinio, che intrecciavano le loro canzoni con duelli”. A differenza di altri luoghi, l’apparente illogicità e la mancanza di connessioni fra i vari fatti narrati testimoniano qui più un emergere di personali ossessioni dell’autore contro le donne e gli omosessuali che non un mimare l’andamento di vecchi miti12.
    Naturalmente con i mutanti, quando derivano da ceppi non-umani e soprattutto quando svolgono una funzione indispensabile, è necessario venire a patti. È così che Kord Jestocost, sia nella Ballata di C-mell perduta che in L’uomo che regalò la Terra, si dichiara favorevole ad una estensione dei diritti dei quasi-umani e, rischiando personalmente, entra in contatto con la Sacra Rivolta, l’organizzazione clandestina degli underpeople, le cui caratteristiche più religiose che politiche sono evidenti dal nome. Non c’è da dubitare, conoscendo la vera identità dell’autore13, che si tratti di uno di quei cambiamenti in cui qualcosa cambia perché tutto resti come prima.
Nota 1: L’esigua – quanto a mole – opera narrativa di Coedwainer Smith si colloca tutta, senza eccezioni, entro il disegno di una “storia futura”, ben più lontana nel tempo da noi di quella immaginata da Heinlein, ma anche dalla Le Guin (si va dai 15 ai 40 mila anni nel futuro, approssimativamente). Dopo un intermezzo, mai descritto con precisione, la Federazione dei Pianeti su cui nel frattempo si è espanso l’uomo (a bordo di curiose astronavi lunghe chilometri e spinte dalla pressione della luce su gigantesche vele) viene governata dai Signori della Strumentalità, che assicurano felicità e pace ad un’umanità peraltro priva di stimoli. Alcuni di questi Signori concepiscono allora un’operazione, la Riscoperta dell’Uomo che, riportando a galla le civiltà scomparse della vecchia Terra, introduca anche malattie, rischi, ecc., in misura non letale per la specie ma sufficiente a ricreare gli stimoli mancanti. La Terra è quasi spopolata, e su di essa sorge il gigantesco astroporto (Terraporto) alto 25 km., costruito dai Daimoni, misteriosa razza a cui Smith dedica alcuni tra i pochissimi cenni da lui fatti all’esistenza di culture aliene nella galassia.
Nota 2: Contenuto nel volume Giù nei vecchi mondi, Futuro 12, Fanucci, 1975.
Nota 3: Vedi per esempio la rivista Calibano, n. 2, Savelli, 1978, dedicata alle forme letterarie di massa, in particolare il saggio di Franco Moretti, Dialettica della paura, e quello di Alessandro Portelli dedicato ad Asimov.
Nota 4: L’uomo che regalò la Terra (The underpeople), Galassia 154, CELT, 1971, p. 43.
Nota 5: C-mell è una ragazza-gatto, che lavora come ragazza-fascino, o ragazza-compagnia (una specie di geishe del mondo della Strumentalità) a Terraporto. Compare come protagonista nel racconto La ballata di C-mell perduta (Nova 19, Libra, 1972), nel ciclo di Rod McBan di Nostrilia (L’uomo che comprò la Terra, Galassia 135, 1971 e L’uomo che regalò la Terra, cit.) e in AlphaRalpha Boulevard (Nova 6, 19722). Farà da tramite fra Lord Jestcost e l’organizzazione segreta degli underpeople di cui parleremo più avanti.
Nota 6: L’uomo che regalò la Terra, cit. p. 104.
Nota 7: La ballata di C-mell perduta, cit. p. 165.
Nota 8: Una parte non trascurabile del fascino dei racconti di Smith, sta nell’ottica che sceglie per raccontarli, che è in genere quella di un cantore (a volte di un critico) collocato in un futuro ancora posteriore a quello in cui si svolgono le storie. Da qui una serie di apparenti illogicità, incongruenze, salti logici e una patina (artificiale, riconoscibilissima, ma affascinante nel suo kitsch) di arcaismo.
Nota 9: Giù nella vecchia Terra, cit., p. 155.
Nota 10: Nova 22, Libra, 1973.
Nota 11: Compreso nel cit. Giù nei vecchi mondi.
Nota 12: Ce n’è abbastanza, forse, per rivedere un po’ il luogo comune, diffuso in tutta la critica specializzata italiana che si è occupata di lui, che vuole Cordwainer Smith principalmente come ispirato cantore dell’amore.

Nota 13: Cordwainer Smith, er in realtà Paul Linebarger (1913-1966), appassionato studioso dell’oriente, esperto di guerra psicologica (e autore di un famoso manuale) e consulente del governo USA per gli affari estremo-orientali.