venerdì 9 settembre 2016

Cordwainer Smith. Il prezzo della felicità di Antonio Caronia


Secondo e ultimo articolo di Antonio Caronia sul tema dei mutanti nella fantascienza da Un'ambigu utopia anno III n°1 gennaio-febbraio 1979 (il precedente qui )
Nella allucinata e mitologica “storia futura” di Crdwainer Smith1 la mutazione ha un posto d’onore. Il mondo dei “Signori della strumentalità” si regge (è vero, come tanti altri mondi del futuro) sul lavoro e sulla presenza di macchine o esseri non umani. Anche nell’universo di Cordwainer Smith ci sono i robot, gli automi: ma si tratta in realtà di cyborg, o qualcosa di molto simile, cervelli di animali, talvolta di uomini (come in Giù nella Vecchia Terra2) in qualche modo riprogrammati e connessi poi meccanicamente a corpi artificiali. Ma l’invenzione più affascinante (e inquietante) del nostro autore sono gli underpeople (quasi-umani, mezzepersone, o omuncoli a seconda della traduzione italiana), discendenti delle vecchie razze di animali terrestri ma dotati, per mezzo di mutazioni genetiche programmate, di aspetto, intelligenza, emozioni umane, e provvisti spesso di capacità superiori a quelle dell’uomo. Non ci vuole molto a riconoscere presente, in questa sottopopolazione soggetta a restrizioni e discriminazioni di fronte alle quali impallidiscono quelle riservate alla gente di colore negli U.S.A., il problema della forza lavoro, che recentemente alcuni hanno voluto vedere come uno dei problemi più interessanti sottostanti alla letteratura di fantascienza e ad altre forme di letteratura popolare3: “Nessuna meraviglia che i quasi-umani fossero necessari. Per gli uomini sarebbe stato un lavoro pazzesco e snervante controllare anche con l’aiuto della più completa automazione, tutti i vari sub-impianti, e prevenire i guasti all’interno di ciascuno di essi e le interruzioni tra l’uno e l’altro”4. Naturalmente, come ogni forza-lavoro che si rispetti in una civiltà industriale, i quasi-umani sono una fonte di problemi e di angosce per coloro che li dominano: dice C-mell5 a Roderick MacBan: “(I terrestri) si stavano estinguendo, proprio perché erano troppo perfetti. Un modo per divenire migliori sarebbe stato di sterminare noi quasi-umani, ma non potevano eliminarci tutti. Ci sono troppi lavori complicati che gli automi non hanno la capacità di scvolgere”6.
    “Nessuna meraviglia”, perciò che gli umani abbiano ribrezzo per qualsiasi contatto fisico con i quasi umani, decretino che essi non possono venire protetti dalla legge umana, e che insomma “il genere umano, avendo risolto tutti i problemi fondamentali, non sia del tutto pronto a permettere che gli animali della Terra, indipendentemente da quanto essi possano essere cambiati, ottengano la piena uguaglianza con l’uomo”7. In effetti la posizione di Smith nei confronti dei suoi underpeople, per quanto è dato di ricavarla, nascosta com’è sotto la crosta stilistica8, non è così semplicistica. Smith sembra insieme attirato e respinto dall’idea dei quasi-umani, e non è certamente un caso che proprio C-mell sia protagonista di alcune delle più belle storie d’amore di questo ciclo.
    Sbaglieremmo però a ricavarne l’impressione che nell’opera di Smith ci sia una considerazione almeno in parte positiva della figura del mutante; se questo accade per i mutanti di origine animale, ben diversa è la questione per quanto riguarda i mutanti di origine umana. L’idea che le tendenze mutagene più diverse spingano l’uomo verso la regressione e la degenerazione è diffusa, qua e là, in tutti i suoi racconti e romanzi. Del resto lo stesso movimento della “Riscoperta dell’Uomo” non è forse la reazione ad una evoluzione regressiva dell’umanità? (“Stiamo uccidendo l’umanità con una blanda felicità senza speranza, proibendo la diffusione delle notizie, sopprimendo la religione e trasformando la storia in un segreto di Stato… L’umanità è priva ormai di vitalità, di forza, di energia. Si sta estinguendo”9, dice il Signore della Strumentalità Sto Odin).
    Ma più espliciti sono altri racconti, in cui l’idea della mutazione biologica e culturale è connessa alla colpa, alla punizione, all’espiazione e all’orrore. Uno di essi è il famosissimo Un pianeta chiamato Shayol10, esplicitamente ispirato all’inferno dantesco.
    Il pianeta Shayol (che in inglese è omofono della parola che indica l’inferno nelle lingue semitiche) è il luogo d’esilio di tutti coloro che si sono macchiati di colpe innominabili: qui i condannati vivranno, senza bisogno di cibo o bevande, sostentati, nutriti e completamente controllati da una forma di vita aliena e (a suo modo) intelligente, il dromozoo, che in forma di fascio luminoso penetra nel corpo umano provvedendo a svolgere tutte le funzioni organiche ma anche, fra terribili dolori, a far crescere nuove parti del corpo, specie di innesti dalla variegata mostruosità. Ma ancora più significativo è forse Il crimine e la gloria del comandante Suzdal11; Suzdal viene inviato proprio su Shayol perché nel corso del suo viaggio ha dovuto far fronte ad un pericolo inaspettato creando in modo del tutto incontrollato una razza di felini intelligenti; ma più che questo ci interessa qui la descrizione del pericolo. Questo è un pianeta, Arachosia, dove una mutazione misteriosa provoca il cancro in tutti gli esseri viventi femminili, comprese le donne dei coloni.
    Per poter sopravvivere una dottoressa, Astarte Kraus (“una donna brillante, spietata, implacabile nei confronti dell’universo che aveva tentato di distruggerla”), trasforma se stessa e tutte le donne ancora in vita in uomini.
    La riproduzione viene assicurata creando uteri artificiali nel corpo degli uomini e dei nuovi uomini-donne. Gli esseri di Arachosia si trasformano così in una società di “omosessuali barbuti, con labbra imbellettate, orecchini, acconciature raffinate… degli attaccabrighe che mescolavano gli amori all’assassinio, che intrecciavano le loro canzoni con duelli”. A differenza di altri luoghi, l’apparente illogicità e la mancanza di connessioni fra i vari fatti narrati testimoniano qui più un emergere di personali ossessioni dell’autore contro le donne e gli omosessuali che non un mimare l’andamento di vecchi miti12.
    Naturalmente con i mutanti, quando derivano da ceppi non-umani e soprattutto quando svolgono una funzione indispensabile, è necessario venire a patti. È così che Kord Jestocost, sia nella Ballata di C-mell perduta che in L’uomo che regalò la Terra, si dichiara favorevole ad una estensione dei diritti dei quasi-umani e, rischiando personalmente, entra in contatto con la Sacra Rivolta, l’organizzazione clandestina degli underpeople, le cui caratteristiche più religiose che politiche sono evidenti dal nome. Non c’è da dubitare, conoscendo la vera identità dell’autore13, che si tratti di uno di quei cambiamenti in cui qualcosa cambia perché tutto resti come prima.
Nota 1: L’esigua – quanto a mole – opera narrativa di Coedwainer Smith si colloca tutta, senza eccezioni, entro il disegno di una “storia futura”, ben più lontana nel tempo da noi di quella immaginata da Heinlein, ma anche dalla Le Guin (si va dai 15 ai 40 mila anni nel futuro, approssimativamente). Dopo un intermezzo, mai descritto con precisione, la Federazione dei Pianeti su cui nel frattempo si è espanso l’uomo (a bordo di curiose astronavi lunghe chilometri e spinte dalla pressione della luce su gigantesche vele) viene governata dai Signori della Strumentalità, che assicurano felicità e pace ad un’umanità peraltro priva di stimoli. Alcuni di questi Signori concepiscono allora un’operazione, la Riscoperta dell’Uomo che, riportando a galla le civiltà scomparse della vecchia Terra, introduca anche malattie, rischi, ecc., in misura non letale per la specie ma sufficiente a ricreare gli stimoli mancanti. La Terra è quasi spopolata, e su di essa sorge il gigantesco astroporto (Terraporto) alto 25 km., costruito dai Daimoni, misteriosa razza a cui Smith dedica alcuni tra i pochissimi cenni da lui fatti all’esistenza di culture aliene nella galassia.
Nota 2: Contenuto nel volume Giù nei vecchi mondi, Futuro 12, Fanucci, 1975.
Nota 3: Vedi per esempio la rivista Calibano, n. 2, Savelli, 1978, dedicata alle forme letterarie di massa, in particolare il saggio di Franco Moretti, Dialettica della paura, e quello di Alessandro Portelli dedicato ad Asimov.
Nota 4: L’uomo che regalò la Terra (The underpeople), Galassia 154, CELT, 1971, p. 43.
Nota 5: C-mell è una ragazza-gatto, che lavora come ragazza-fascino, o ragazza-compagnia (una specie di geishe del mondo della Strumentalità) a Terraporto. Compare come protagonista nel racconto La ballata di C-mell perduta (Nova 19, Libra, 1972), nel ciclo di Rod McBan di Nostrilia (L’uomo che comprò la Terra, Galassia 135, 1971 e L’uomo che regalò la Terra, cit.) e in AlphaRalpha Boulevard (Nova 6, 19722). Farà da tramite fra Lord Jestcost e l’organizzazione segreta degli underpeople di cui parleremo più avanti.
Nota 6: L’uomo che regalò la Terra, cit. p. 104.
Nota 7: La ballata di C-mell perduta, cit. p. 165.
Nota 8: Una parte non trascurabile del fascino dei racconti di Smith, sta nell’ottica che sceglie per raccontarli, che è in genere quella di un cantore (a volte di un critico) collocato in un futuro ancora posteriore a quello in cui si svolgono le storie. Da qui una serie di apparenti illogicità, incongruenze, salti logici e una patina (artificiale, riconoscibilissima, ma affascinante nel suo kitsch) di arcaismo.
Nota 9: Giù nella vecchia Terra, cit., p. 155.
Nota 10: Nova 22, Libra, 1973.
Nota 11: Compreso nel cit. Giù nei vecchi mondi.
Nota 12: Ce n’è abbastanza, forse, per rivedere un po’ il luogo comune, diffuso in tutta la critica specializzata italiana che si è occupata di lui, che vuole Cordwainer Smith principalmente come ispirato cantore dell’amore.

Nota 13: Cordwainer Smith, er in realtà Paul Linebarger (1913-1966), appassionato studioso dell’oriente, esperto di guerra psicologica (e autore di un famoso manuale) e consulente del governo USA per gli affari estremo-orientali.

giovedì 1 settembre 2016

Theodore Sturgeon. Alla ricerca dell'uomo ottimale di Antonio Caronia


(Un'Ambigua Utopia anno III n. 1 gennaio-febbraio 1979 p. 20. Ristampato in Un'Ambigua Utopia. Fantascienza e radicalità negli anni '70, Mimesis, Milano, 2009 vol. I)

Se c’è un autore che ha cercato di dimostrare pressoché in tutta la sua opera, che i diversi, gli anormali, quelli che, sulle labbra o nel cervello dei “normali” sono gratificati spesso e volentieri del titolo di “mostri”, possono ben essere in realtà i migliori fra noi, quello è Theodore Sturgeon.
    A lui dobbiamo alcuni fra i ritratti e le storie più belle che ci abbia dato la fantascienza su questi “mostri”: dalle deformità della gente del circo (Cristalli sognanti)1 agli idioti e i mongoloidi (Nascita del Superuomo), fino agli omosessuali (Venere più X, Un mondo proprio perduto). E questo, badate bene, ben prima della new wave, la controcultura, il ’68: Cristalli sognanti è del 1950, del 1953 Nascita del Superuomo. Di questo sarebbe ingeneroso non essergli grati; come di aver introdotto (anche stavolta, in tempi che in generale non erano troppo propizi a queste cose) una cura e una raffinatezza stilistica ben più corposa dell’autocompiacimento manierato e a lungo andare vagamente nauseabondo di Bradbury. Ma questi sono del resto risultati acquisiti dalla critica, e non vale la pena di fermarcisi sopra oltre. Quello che, per una volta tanto, sarà bene fare è andare a vedere il più impietosamente possibile i limiti della sua opera e della sua concezione.2 Limiti che, se non ho capito male, non mi sembrano precisamente quelli indicati da Curtoni e Lippi in un recente libro: mi sembra almeno impreciso (e fuorviante) dire che “il limite massimo di tutta la sua produzione” consiste in “un vago umanitarismo di base che non è affatto sorretto da una concreta ideologia politica”3. La conseguenza che (sicuramente contro il parere dei suddetti autori) se ne potrebbe trarre è che “una concreta ideologia politica” (insieme con un buon stile) garantisce la validità delle opere; e anche se a “ideologia politica” si aggiunge il complemento “di sinistra” questa è una tesi che non ci trova proprio d’accordo (anche se pseudo-critici e fanzinisti di tutta Italia – cattivi lettori ma anche cattivi ideologhi, cosa di cui da tempo siamo convinti – si ostinano ad attribuirci nei loro bollettini interni questa e altre peggiori nefandezze).
    Qual è dunque, quale può essere il limite di Sturgeon? Il discorso che Sturgeon costruisce, opera dopo opera, sul mutante, è pressappoco il seguente: “Noi abbiamo, chi dice un decimo, chi due terzi del cervello, che non usiamo, o che usiamo ma senza sapere perché. E se non lo scopriamo e non esercitiamo queste capacità, potrebbero scomparire”4. Bisogna dunque cercare l’”uomo ottimale”; il quale, d’altronde, può già vivere tra di noi. Ma noi rischiamo di non accorgercene, perché la veste sotto cui si nasconde può essere la più varia. Ed è sempre più probabile che l’”uomo ottimale”, o il suo diretto antenato, sia appunto un anormale, un marginale, un “mostro”. Uno insomma, che faticherà non poco a farsi “accettare” dagli altri, dai normali: e da qui il rischio, il rischio di perdere questa “mutazione benefica” senza che abbia potuto svilupparsi appieno. L’”uomo ottimale” di Sturgeon rappresenta, nella pienezza del suo sviluppo, un’altra specie? A volte pare di sì, a volte di no. Il Robin English di Maturità (1947)5 non è che un essere umano particolarmente dotato, a cui un intervento chirurgico permette di raggiungere livelli di comprensione eccezionali, come del resto il Gorwing di Gente (1960)6 che la telepatia condanna a percepire i bisogni più segreti di tutti; a metà fra l’umano e l’alieno è Horty, che i cristalli hanno copiato da un essere umano dotandolo però di poteri eccezionali7, mentre in Nascita del superuomo (1953)8 l’interazione di cinque umani apparentemente subnormali o disadattati dà luogo ad una nuova specie, l’Homo Gestalt. Ognuno di questi personaggi (ai quali limitiamo, per comodità, le esemplificazioni) deve, in genere, percorrere la lunga strada dell’apprendistato, deve conquistare la comprensione della sua vera natura, che il rapporto con gli altri ostacola.
    Ora la “filosofia” di Sturgeon, la sua visione del mondo, è largamente ispirata ad un materialismo un po’ vago, di stampo prevalentemente neopositivistico. Il suo credo è un evoluzionismo, in fondo, ottimistico: egli è segretamente convinto che l’umanità finirà per imboccare la strada della mutazione positiva, e, al limite, del suo superamento come specie. Naturalmente Sturgeon sa benissimo che l’ostacolo è nell’uomo stesso, perché “tutta la vita terrestre deriva  e opera da un solo comando imperativo: sopravvivere!”9. Per questo gli uomini hanno paura dell’Homo Gestalt; mentre Monetre, il Cannibale, è vittima anch’egli (Sturgeon lo accenna appena) dell’invidia dei mediocri per chi è molto superiore a loro. Il fatto è che Sturgeon non ha una chiara percezione dei meccanismi reali, più profondi, di esclusione e di emarginazione. Non ha, insomma, un discorso sul potere: e per questo la rappresentazione della vita dei “diversi” nei confronti del resto della società risulta sempre, in fondo, così astratta: per questo c’è sempre uno stacco così profondo fra la descrizione dei sentimenti, della vita quotidiana, dei rapporti umani immediati, di questi esseri, e le divagazioni filosofico-moraleggianti a cui Sturgeon quasi mai sa rinunciare (questo vale anche per il finale, in genere così apprezzato, di Nascita del superuomo).
    Forse è in Maturità, agli inizi della sua carriera, che Sturgeon è andato più vicino che altrove ad una comprensione più profonda dei meccanismi sociali di esclusione dei mutanti. Quando Robin discute sul concetto di maturità con i suoi occasionali amici nei bar, ad un certo punto se ne esce con una frase del genere: “Un piede equino, un occhio cieco, un complesso di Edipo non producono, di per sé, nessun conflitto, ma soltanto in relazione con l’altra gente, con ciò che noi definiamo società. Così ciò che si sforza di compiere la moderna psichiatria è di far maturare i soggetti non in termini di evoluzione individuale, ontogenetica, ma unicamente, e necessariamente, in base ai parametri stabiliti dalla società, la quale di per sé è illogica, non funzionale e immatura”10. E poco dopo suggerisce una definizione della “maturità in termini di una società fatta d’individui, non convenzionale, non oppressiva”. Non è la mancanza di un’ideologia politica precisa che dobbiamo rimproverare a Sturgeon, neppure il suo disinteresse per la politica: è la mancanza di approfondimento degli spunti che qua e là pure si trovano nelle sue opere, la mancanza di profondità del suo discorso sulla società, e, quindi, sull’uomo11.
    Dispiace di più, per esempio, che anche in un racconto come Gente (in originale Need, cioè bisogno) Sturgeon sprechi ancora una volta l’occasione, affrontando un discorso così importante (e così vicino oggi, a noi) come quello dei bisogni della gente, e giri intorno al nocciolo del problema, che è quello della struttura dei bisogni individuali e collettivi in rapporto alla società. Ancora una volta l’individualismo è la sua forza (“Le cose di cui la gente ha bisogno e le cose da cui ha bisogno di essere difesa sono cose di tutti i tipi: nessuno di loro è un mostro, se il suo particolare bisogno è diverso dagli altri”)12, ma poi tutto si perde nel bozzettismo di provincia; e la figura del mutante telepatico diventa quella di un simpatico boy-scout che aiuta la gente a risolvere i suoi problemi. Be’: non si può chiedere a Sturgeon più di quello che può dare; gli si può chiedere, però, questo sì, di stare un po’ più attento quando si fa intervistare da Sebastiano Fusco e di protestare quando (a sproposito) gli si fa dire che ha le stesse idee di Julius Evola13.
Nota 1: Non ho trovato traccia, in nessun articolo, intervista, prefazione, ecc., di una conoscenza diretta da parte di Sturgeon del film Freaks di Tod Browning, che è del 1932. Senza sopravvalutare il parallelismo, alcune affinità sono evidenti.
Nota 2: Forse non sarà sempre più utile, ma sicuramente è sempre più stimolante cercare le magagne degli autori che si amano di più. Nei libri e nei film brutti il marchio dell’ideologia è in genere riconoscibile a prima vista.
Nota 3: V. Curtoni – G. Lippi, Guida alla fantascienza, Gammalibri, Milano, 1978, p. 119
Nota 4: La citazione è tratta da una contesa intervista  rilascita da Sturgeon allo SFIR del 1976; la riportiamo dall’introduzione a T. S., La stirpe di Giapeto, Fanucci, Roma, 1978, p. 28
Nota 5: T. Sturgeon, Viano e altri, Maturità, Galassia 223, CELT, Piacenza 1977
Nota 6: T. Sturgeon, Gente, in Robot, n. 3, 1976
Nota 7: T. Sturgeon, Cristalli sognanti, Libra, Bologna, 1973
Nota 8: T. Sturgeon, Nascita del superuomo, Nord, Milano, 1974
Nota 9: Cristalli sognanti, cit., p. 226
Nota 10: Maturità, cit., p. 48
Nota 11: Per non parlare (scusate il giro di parole) del discorso sulla donna: sospetto che un’analisi appena approfondita del modo in cui Sturgeon  (e altri autori) tratteggiano i loro personaggi femminili possa essere di grande interesse anche per capire meglio le ragioni più profonde della loro opera. Del resto a critiche da questo punto di vista non si sottraggono neanche le autrici: vedi per tutte Ursula Le Guin, che pure presenta limiti molto meno marcati di Sturgeon, relativamente all’ottica che ho adottato in questo breve articolo.
Nota 12: Gente, cit., p. 50
Nota 13: V. l’”a parte” di Fusco nell’intervista già citata, p. 27. Il carattere del tutto gratuito di questa osservazione non ha bisogno evidentemente di essere dimostrato.