venerdì 8 dicembre 2017

Antonio Caronia: Utopia e fantascienza. Un menage difficile. 1^ Parte


“E lui chiese a Gargantua d’istituire il suo Ordine al contrario di tutti gli altri. – Per prima cosa allora – disse Gargantua – non bisognerà costruirvi muraglie all’ingiro, visto che tutte le altre abbazie sono fieramente murate.
Francois Rabelais
“L’utopia si presenta come un giardino ben riuscito: ogni cambio di stagione porta con sé il suo nuovo ciclo di colori piacevoli, profumi paradisiaci e lavoro da spaccare la schiena.
John Sladek

Utopia e Fantascienza, sembrerebbe, denunciano parentele e frequentazioni comuni indubitabili. Analogo sembra, se non il progetto, o l’intenzione, perlomeno il mezzo scelto, la configurazione di fondo del discorso. Entrambe ci parlano di una realtà “altra”, diversa, lontana nello spazio o nel tempo; ma entrambe ce ne parlano con più di un occhio aperto e spalancato sulla nostra realtà. Certo, in modo ben più consapevole negli utopisti che negli scrittori di fantascienza. Ma è risultato ormai acquisito generalmente (se escludiamo gli apologeti sciocchi e i detrattori per partito preso) che, in maggiore o minore misura, comunque a prescindere dalla consapevolezza che gli autori ne hanno, l’uso dei marchingegni, delle situazioni, dei personaggi e degli scenari della fantascienza fornisca le opere in cui questi marchingegni, ecc. ecc. si calano, di un discorso abbastanza preciso sulla nostra società, sulla nostra realtà. È giusto insistere su questo punto, perché la sua negazione rappresenta uno dei pregiudizi maggiormente diffusi sulla Fantascienza, fra chi non la legge come fra chi ne legge troppa e/o troppo distrattamente. E non parliamo qui dei capolavori, egli autori più avvertiti e più interessanti della Fantascienza, ma del prodotto, per così dire, commerciale medio. Anche nelle space operas, più superficiali, nei più squallidi romanzi di Ron Goulart o di Vargo Statten (tanto per fare degli esempi e farci qualche altro nemico) troveremo in controluce un discorso su di noi, su qualche aspetto della nostra condizione sociale o morale o affettiva; un discorso forse inconsapevolmente da parte dell’autore, ma intenzionale, sul piano dell’opera. Diverso quindi, tento per intenderci, da quello che troviamo in altri generi di narrativa popolare, dal giallo all’orrore al romanzo di avventure. Non che questi ultimi siano, per così dire, atemporali. È ovvio che ritroviamo anche in loro, per lo stile, per l’ideologia rispecchiata o proposta, per il tipo di maschere che vi fungono da personaggi, il marchio del loro tempo, il discorso letterario (e quindi di potere) egemone. Ma questo nel giallo, o nell’orrore, avviene per così dire, una volta per tutte: il marchio si imprime nel genere in quanto tale, non nelle sue variazioni e articolazioni concrete che sono i singoli romanzi e racconti1: non è così nella fantascienza. Qui il discorso sull’oggi, su di noi, non è dato una volta per tutte, impresso nelle caratteristiche di un genere che, a meno di varianti tutto sommato inessenziali, si ritrova immutato nelle varie opere e, in ultima analisi, riscrive sempre la stessa storia. Qui il discorso è ricco, articolato, spazia su tutti i temi della condizione umana, non ripete mai lo stesso cliché: anche se, a voler fare un discorso statistico, è ovvio che questo discorso risulta nella maggior parte dei suoi casi reazionario, conservatore, un puro contributo alla conservazione dei rapporti di potere esistenti.

Utopie e antiutopie

Ma torniamo all’utopia. Utopia e Fantascienza, dunque, parlano di altri mondi per parlarci di noi. Da un certo punto di vista si potrebbe forse sostenere che la fantascienza è la più grande produzione di utopie del nostro tempo. Per affermare questo occorrerebbe però servirsi di un’accezione del termine “utopia” un po’ troppo ampia. Identificare l’utopia con la manipolazione, il gioco letterario sul possibile sotto qualsiasi forma può essere forse affascinante, ma rischia di far perdere spessore a quello che l’utopia storicamente è stata. Ora non c’è dubbio (come del resto ha mostrato bene Henri Desrosche nell’articolo che precede)(*) che l’Utopia scritta e praticata, dai primordi alla fioritura rinascimentale fino ai grandi sistemi socialisti del XVIII/XIX secolo, è stata costantemente intesa come società ideale, perfetta, immagine o simulacro non localizzabile ma proposto come valore, contrapposto alla società esistente2. Da questo punto di vista, allora, cercheremmo invano le utopie nella fantascienza. O meglio, ne troveremmo alcune, ma isolate, eccezionali. E insomma non tali da caratterizzare la fantascienza come genere “utopico” /e anche questi casi isolati meritano esami particolareggiati, perché la loro classificazione come “utopia” non è del tutto pacifica: ad alcuni di essi accenneremmo più avanti). Se un rapporto più preciso con l’Utopia è intrattenuto dalla Fantascienza, si tratta piuttosto – sul piano contenutistico e stilistico – di un rapporto negativo: la Fantascienza abbonda, insomma, di quelle che sono state definite “antiutopie” o “distopie”. Non è difficile tracciare una linea (neanche poi tanto contorta) che parta da Wells (in particolare La macchina del tempo) tocchi due o tre scrittori la cui appartenenza al campo fantascientifico è più reclamata dagli appassionati e dai critici specializzati che ammessa dagli interessati – diciamo ovviamente l’Orwell di 1984 e La fattoria degli animali, l’Huxley di Il mondo nuovo, il Vonnegut di Player Piano – e arrivi alla stagione della Fantascienza di critica sociale – quella fiorita sulla rivista americana Galaxy a metà fra i ’50 e i ’60 e nota presso gli appassionati col nome di “fantascienza sociologica”. Questa linea ha alcune propaggini che arrivano sino ai nostri giorni, e io vi includerei anche Ursula Le Guin, che è probabilmente l’ultima grande scrittrice di fantascienza “classica”,3 e ovviamente in particolare il suo I reietti dell’altro pianeta, che potrebbe essere annoverato fra le poche eccezioni “utopistiche” della fantascienza di cui si parlava qualche rigo sopra. Mentre nella letteratura utopica abbiamo in genere il modello di un Viaggiatore, proveniente dal nostro tempo, o dalla nostra società, che visita la società alternativa, e quindi istituisce, intenzionalmente o no, un parallelo fra istituzioni sociali, politiche, religiose, economiche (e a volte anche vita quotidiana) del mondo reale e di quello immaginario, il modello del racconto anti-utopico si basa generalmente su un conflitto fra la società del futuro (o dell’allegoria) e il Ribelle, che può anche essere portatore delle convinzioni in nome delle quali l’autore si oppone al tipo di società raffigurata. Il modello “conflitto fra Ribelle e Società totalitaria” può combinarsi sia con il modello tratto dalla grande tradizione europea del “romanzo di sviluppo”, sia con il vecchio modello dei viaggi meravigliosi e della letteratura utopica classica, quello del viaggiatore. Nel primo caso, che è quello di 1984, o di Mercanti dello spazio di Pohl e Kornbluth, il Ribelle è un membro disciplinato della società, che all’inizio ne accetta almeno apparentemente  regole e convenzioni, ed è portato a ribellarsi per effetto di un processo di maturazione, di sviluppo individuale, che a poco a poco gli svela la “vera natura” della società in cui vive e lo convince della necessità di opporvisi. Nel secondo caso, un magnifico esempio del quale è Un biglietto per Tranai di Robert Sheckley, il protagonista è invece un viaggiatore che visita la società anti-utopica (convinto magari, come nell’esempio citato, che sia il paese di Utopia), si rende conto dell’errore e scatena il conflitto. In entrambi i casi (più nel primo che nel secondo, evidentemente) la “distanziazione cognitiva” di cui parla Suvin4 – cioè, nel caso concreto, la coscienza del carattere “antiutopico”, negativo, della società descritta – è affidata ad un confronto implicito  fra la società narrata e le potenzialità esistenti in quella reale: implicito, cioè non affidato a prese di posizione di qualche personaggio nella narrazione, ma alla struttura semantica e sintattica della narrazione. Il riferimento alla realtà dell’autore è del resto, per Suvin, un carattere di tutto il genere fantascientifico: “Dal momento che, a differenza del racconto fantastico o mitologico, la SF non mostra un’altra realtà più alta e ‘più reale’, ma un’alternativa sullo stesso livello ontologico della realtà empirica dell’autore, si dovrebbe dire che la correlazione necessaria del novum  è una realtà alternativa, che possiede un diverso tempo storico corrispondente alle diverse relazioni umane e norme socio-culturali rese attuali dalla narrazione. (…) La specifica modalità di esistenza (della SF) è un’oscillazione di ritorno, che muove ora dalla norma della realtà dell’autore e del presunto lettore verso il novum…, in modo da capire gli eventi dell’intreccio, ora in direzione opposta da queste novità verso la realtà dell’autore, in modo da vederla daccapo dalla nuova prospettiva che è stata ottenuta. Questa oscillazione (è stata) chiamata estraniamento da Skhlovsky e Brecht.”5  Naturalmente c’è una bella differenza fra la “distanziazione cognitiva” della linea Wells-Orwell-Vonnegut-Pohl/Kornbluth-Shekley-Le Guin, (che ha poi dietro di sé il grande esempio di Swift) e quella dell’altra linea della “fantascienza classica”, che dalla space opera luccicante di acciai e lustrini va al “verosimile” tecnologico predicato da Campbell e realizzato da Asimov6 e continuato dai suoi stanchi epigoni di oggi, Niven, Pournelle e simili, la “cara, vecchia fantascienza di base”, insomma che “altro non è che un implicito programma di riforma della società secondo principi tecnocratici: il mondo visto come una trappola perfezionata”7. L’utopia di Asimov, se così la si può chiamare, è un’utopia della sopravvivenza. “sopravvivenza fisica dell’umanità”  non meno che ”sopravvivenza dei dati essenziali della sua cultura”, della cultura di quella “classe media, spina dorsale dell’impero americano, (che) si costruisce nelle pagine di questo scrittore  medio e nelle imprese dei suoi eroi medi un monumento destinato a durare oltre la fine dell’Eternità”8.

Nota 1: Facciamo qui riferimento essenzialmente al giallo poliziesco di tipo inglese, e non al giallo americano hard-boiled per il quale, perlomeno nel caso di Chandler e Hammet, il discorso sarebbe diverso.
Nota 2: Darko Suvin, Pour une poétique de la science-fiction, Montréal, 1977, 1.ère partie, chap. IV.
Nota 3: Il significato dell’espressione “fantascienza classica” sarà più chiaro nel seguito dell’articolo, con esso intendo delimitare tutte le correnti e gli autori, anche attivi in questi anni, che non intrattengono alcun tipo di rapporto con la lezione della new wave.
Nota 4: Darko Suvin, op. cit., 1.ère partie, chap. 1.er.
Nota 5: Darko Suvin, La fantascienza e il novum, relazione introduttiva al convegno internazionale di Palermo, cicl., p. 6 (di prossima pubblicazione negli Atti del Convegno presso l’editore Feltrinelli).  
Nota 6: Non stupisca questo accostamento, inusuale, nelle periodizzaziobni della fantascienza in uso presso la critica nostrana, fra la space opera e la FS tecnologica di Campbell. Le differenze sono molte, ma l’atteggiamento nei confronti del reale, per il discorso che qui ci interessa, è del tutto analogo.
Nota 7: AA.VV., Domani andrà meglio, (a cura di T. Disch). Fantapocket Longanesi, Milano 1977; introduzione di T. Disch, p. 7.

Nota 8: Alessandro Portelli, Il presente come utopia: la narrativa di Isaac Asimov, in Calibano n. 2, Savelli, Roma, 1978, p. 175 e 179.     

(*): Henri Desroche, La cavalcata delle utopie.

(Pubblicato in Un'Ambigua Utopia n.2 marzo-aprile 1979) 

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